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Shortcuts: i cd in breve...


Shortcuts: i cd in breve...: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle novità discografiche, ma in versione compressa!

DURAND JONES & THE INDICATIONS

"Durand Jones & the Indications"

Colemine Rec. (USA) - 2018 - Deluxe Edition

Make a change/Smile/Can't keep my cool/Groovy babe/Giving up/Is it any wonder/Now I'm gone/Tuck'n'roll/I can't do without you (live)/Make a change (live)Can't keep my cool (live)/Groovy babe (live)/Should I take you home (live)/Dedicated to you (live)/Now I'm gone (live)/Is it any wonder (live)/Smile (live)/Giving up (live)

Sebbene non disponga delle doti vocali e della risonanza emotiva di cui i grandi soulmen erano dotati e capaci, si ascolti anche soltanto l’appassionata urgenza di Can’t Keep My Cool per riassaporare, anche solo per pochi istanti, la veemenza del soul più schietto e vibrante, quel senso intimo di intensa orazione che coniuga le istanze tipiche della musica di ispirazione sacra con lo spirito di quella profana: qui, il cielo incontra la terra ed è nuova alleanza.
Lo strumento di Jones, roco e monocorde, scuro nella sua più comune manifestazione, ricorda un po’ il recente Lee Fields. Anche musicalmente, alterna episodi schiettamente soul ad altri dal taglio più funk e con groove marcati e ossessivi. In questa direzione vanno altri due brani, tra i più riusciti e trascinanti: il funky blues minore Now I’m Gone e il singolo Make A Change.
Dal cuore della bayou dove è nato a un anonimo condominio dell’Indiana dove è finito a vivere, nulla s’è perso dei suoi trascorsi giovanili consumati a suon di soul e canti di chiesa e tutto quanto pare riverberarsi tra la copertina del disco e il nome della band, entrambi decisamente ‘old school’. E se riuscite a procurarvi la versione deluxe di questo lavoretto, tanto meglio: avrete la possibilità di ascoltare gli stessi brani (con l’aggiunta di un altro paio) in doppia versione, studio e live, quest’ultimi registrati tra Boston e Bloomington, Indiana. G.R.

MARCIA BALL

"Shine bright"

Alligator Rec. (USA) - 2018

Shine bright/I got to find somebody/They don't make 'em like that/Life of the party/What would I do without you/When the Mardi Gras is over/Once in a lifetime thing/Pots and pans/World full of love/I'm glad I did what I did/Too much for me/Take a little Louisiana

Col tempo, la voce di Marcia Ball si è fatta un po’ più speziata e profonda; ma questa è l’unica macroscopica differenza osservabile mettendo sul vetrino il suo ultimo Shine Bright, nuovo tassello che si aggiunge alla già copiosa discografia di questa brillante cantante pianista. Per il resto, solo conferme!
La casa discografica è ancora l’Alligator, la medesima che ha pubblicato buona parte delle sue uscite discografiche e, musicalmente, il disco contiene quanto di più naturale ci si possa attendere dalla Ball: un trionfo caleidoscopico, carnascialesco di barrelhouse piano e New Orleans sound. A spezzarne l’andazzo, soltanto un paio di delicate ballads (What Would I Do Without You e World Full Of Love), il brillante funk di Pots and Pans, Life Of The Party dal sapore mariachi e la conclusiva Take A Little Louisiana, omaggio zydeco a Jesse Winchester. La produzione è tutta nelle mani di Steve Berlin e le registrazioni effettuate tra Austin e il leggendario Dockside Studio di Maurice, Louisiana. G.R.

REVEREND FREAKCHILD

"Dial it in"

Floating Rec. (USA) - 2018

Opus earth/Personal Jesus (on the mainline)/Hippie bluesman blues/Dial it in!/Skyflower/Roadtrance/Damaged souls/15 going on 50/It's alright, ma (I'm only bleeding)/Soul of a man/Opus space

Indicatore di percorsi, illuminatore di strade esistenziali, del prolifico reverendo-filosofo Freakchild si può pensare tutto, avendo lui invaso il già vasto orizzonte delle produzioni discografiche attuali, con nuove, sempre singolari uscite, a cadenza pressoché annuale. Noto con favore, però, che a differenza del penultimo, in verità poverello e un po’ deludente, Preachin’ Blues, questo Dial It In suona assai convinto e convincente.
Abbandonati, in buona parte, loop, campionamenti e altre moderne diavolerie in questo disco, Freakchild, si avvale di comunemente mortali musicisti (e, nemmeno, gente da poco se, tra le fila, troviamo figuri dal passato speso tra Bob Dylan, Levon Helm, Al Green, etc.) che mascherano e imbelletano i limiti tecnici del protagonista. Perché, se per nulla gli difettano le idee, la manualità con lo strumento quella, un pochino, sì. Ciò che il “reverendo”, invece, non abbandona mai è la congenita predisposizione al concept album. In questo senso, la vetta fu raggiunta col doppio, seducente Illogical Optimism; ma, in quanto a concetti, anche quest’ultima uscita non scherza affatto. Aperta e chiusa da due acustiche parentesi psichedeliche inneggianti alla terra e allo spazio, ciò che vi sta in mezzo è musica per il corpo e per lo spirito. Su tutto, si elevano due cover: Personal Jesus (sì, proprio quella dei Depeche Mode!) e la dylaniana It’s Alright, Ma, interpretata con inusuale gusto del rischio e una particolare attenzione al testo. G.R.

WILLIE JACKSON

"Blues"

Autoprodotto (USA) - 2018

Just an old dog/Big bones woman/I'll throw you back/Sleepin' on the job/Why you still mad?/Diggin' my shovel (in your sister's backyard)

La gommosa pastosità del baritono bruno e risonante di Willie Jackson, allevato ed educato nei cori sacri della chiesa del sud, ben si sposa al verace lirismo blues di cui questo dischetto si fa fedele contenitore. Poco si sa di lui, se non dei suoi esordi e che, a causa di un incidente, occorsogli nel 2009, dovette lasciare il proprio impiego da ferroviere divenendo, senza possibilità di altra scelta, bluesman a tempo pieno. Ma Willie Jackson da Savannah, Georgia, oltre che cantante, è arguto autore la cui penna è intinta, con decisione, nel denso e scuro inchiostro della più schietta tradizione blues, fatta di allusivi doppi sensi e, caustiche, anche divertenti metafore. E si scorrano soltanto i titoli, per intuire le atmosfere dei brani.
L’opera, che si consuma nel breve spazio di un EP, è pregna di quel verace sapore urbano che permea, con succoso umore, il genere dai tempi di Howlin’ Wolf in qua. Basta ascoltare Big Boned Woman o Diggin’ My Shovel per capire che Willie Jackson conosce la storia del blues del sud e la reinterpreta col filtro dei propri occhi acuti; il quadrinomio chitarra, basso, batteria e armonica, capitanato e scolpito da Dillon Young, fa tutto il resto. G.R.

KRIS LAGER BAND

"Love songs & life lines"

Autoprodotto (USA) - 2018

Aurora borealis/The heart wants what the heart wants/Sweet magnolia/I wanna hold you in my arms/San Francisco bound/You know I love you/Pickin' up the pieces/You and I/Where the green grass grows tall/Guiding light/I'm still here and I ain't lettin' go/I'll be thinking of you/That's what love is/Journey's sonata

Nettamente scostato dalle precedenti uscite di Kris Lager, ben inchinate verso un sole nascente dai tratti funky-blues-rock, quest'ultimo Love Songs And Life Lines suona bucolico e rigenerante come un mantra tibetano. L'intimista luce che illumia le tracce sembra fatta apposta per concentrare l'attenzione sulla vasta preghiera del suo presente, semplice ma efficace songwriting, ispirato da fatti di personale vita quotidiana e umile introspezione esistenziale.
Sarà la voce di Lager, sarà il missaggio a cura del sempiterno Jim Gaines, ma questo disco sembra la rivisitazione, in chiave moderna, di alcune primitive cosucce di Van "The Van" Morrison. Si apre (e si chiude), quasi fosse un testo sacro, con due evocativi strumentali. Ma ciò che sta in mezzo, è tutto frutto della poetica penna di Lager che, accompagnato da un ristretto combo bass and drum, completato da un sax dal suono ora etereo, ora transgenico e occasionalmente esteso a percussioni, cori e piano ci accompagna attraverso un viaggio che trova le sue tappe salienti nel semplice groove di Pickin' Up The Pieces, nelle divagazioni in stile Muscle Shoals di You And I o ancora nella ingenuamente jazzata I'll Be Thinking Of You o nella tenera ballad That's What Love Is. G.R.

GHOST TOWN BLUES BAND

"Backstage pass"

Autoprodotto (USA) - 2018

Come together/Tip of my hat/Shine/Givin' it all away/Big Shirley/Whipping Post/I get high/One more whiskey/I need more love

La versione di Come Together che apre questo disco suona come se fosse stata riletta dal frutto di un curioso esperimento genetico che mescola, nella sua manifestazione fisica, tratti fisiognomici dei Tower Of Power con altri tipici degli Allman Brothers: per la serie, quando una slide guitar sudista incontra la coulisse di un trombone e le ance dei sax. E questa è soltanto la prima pagina di un libro sonoro che riserva, nel suo dispiegarsi, piacevoli sorprese, caleidoscopiche mescolanze e pur storiche citazioni. Non ci si faccia, dunque, trarre in inganno dal nome della band che, al contrario, richiamerebbe immaginazioni assai più tradizionali. Non è così!
Backstage Pass è la quarta registrazione ufficiale di questa vivace band di Memphis e cattura, dal vivo, quel saporito gumbo roots & blues che mescola e confonde i generi. Capitanati da Matt Isbell, cantante, autore ed esperto costruttore di cigar box guitars che, puntualmente, porta sulla scena, omaggiano New Orleans con Tip Of My Hat, ripensano ai Temptations con Shine, spingono forte sul groove con un Givin’ It All Away a uso e consumo del virtuoso trombonista Suavo Jones così come il George Porter di I Get High, qui riproposto in salsa funky rap. Il classicissimo dei fratelli Allman, Whipping Post, trasformato in una cavalcata per Hammond, chitarre, basso e arditi cambi di tempo e ritmo, da solo, varrebbe tutto il disco che, tra le tracce, contiene abili, divertite citazioni di Led Zeppelin, Spencer Davis Group e, finanche, Lou Reed! G.R.

GUS SPENOS

"It's lovin' I guarantee"

Autoprodotto (USA) - 2018

It's lovin' I guarantee/She walked right in/Hush baby don't you cry/Fool's blues/Every tic's got a toc/Blind boy/Livin' is a crime/Lil' dog/I'm gone/Have mercy baby/Hey girl/Kind lovin' daddy/Got myself a diamond

Con una vocalità riminescente del pastoso canto di Charles Brown, Gus Spenos, di professione neurologo, si immerge intero nel regno sonoro dei grandi “greggi”. La propria voce strumentale, cala i toni morbidi e sognanti alla Lester Young in un contesto di schietto R&B anni ‘50 sorretto da una corposa band dalla quale emergono alcune spiccate personalità musicali quali il trombettista Freddie Hendrix, il trombonista Wycliffe Gordon e il leggendario batterista Cecil Brooks III.
In un repertorio quasi interamente formato da classici, pescati dai repertori di Buddy Johnson, Eddie Boyd, Titus Turner e Jimmy Rushing, Spenos trova il giusto spazio per infilare anche qualche originale composizione, a mezza strada tra Louis Jordan e Wynonie Harris, come l’arguto Every Tic’s Got A Toc. In taluni episodi, come Have Mercy Baby, sostenuto dai cori delle Raelettes, il sax di Spenos si muove agile mentre si osservano, lungo le tracce, voli solistici di assoluto pregio spiccati dai succitati Hendrix, Gordon e dall’altoista Bruce Williams. Ottimo, per gli amanti dei viaggi nelle macchine del tempo. G.R.

MARSHALL LAWRENCE

"Feeling fine"

Autoprodotto (CAN) - 2018

Feeling fine/Dancing with a hurricane/Ida Mae/What am I doing here/Blues still got me/Going down to Memphis/Help me find my way home/Mean hearted woman/Keep on walking/Dirty dishes

Piccoli scampoli di Deep Purple, Rainbow, rock sinfonico, Brian May e Status Quo si mescolano in questo cd (il suo quinto) e, nel mescolarsi, affiorano fino a intravedersi ripetutamente tra le trasparenze della vernice dello strumento di Marshal Lawrence e, conseguentemente, tra le tracce qui proposte. Chitarrista, cantante e autore canadese, affronta l’intero disco in formato quartetto (trio base con aggiunta di tastiere), ma soltanto occasionalmente e non prima del terzo brano in scaletta, concede risposta alla fondamentale domanda che sorge spontanea: saprà suonare anche del blues? La replica immediata è un 'sì' e ne troviamo conferma in brani come il futuristico boogie Ida Mae, What Am I Doing Here, nella slide irrequieta di Going Down To Memphis ma, soprattutto, nell’energica Mean Hearted Woman.
Malgrado la presenza di soli brani originali, la scrittura e il canto non sono proprio i suoi principali talenti. Tuttavia, c’è qualcosa di visionario nel modo in cui Lawrence suona e rivisita il genere, che non emerge immediato ma si rivela, adagio, tra le righe e non lascia del tutto indifferenti; soprattutto in quei brani dove riesce a sbarazzarsi degli scampoli di cui sopra. G.R.

THE JAMES HUNTER SIX

"Whatever it takes"

Daptone Rec. (USA) - 2018

I don't wanna be without you/Whatever it takes/I got eyes/MM-Hum/Blisters/I should've spoke up/Show her/Don't let the pride take you for a ride/How long/It was gonna be you

La vulnerabilità più che il vigore; il sommesso abbandono più del fiero carattere sono i macroscopici tratti distintivi di questa seconda opera di James Hunter per i tipi della Daptone che, manco a dirlo, pesca a piene mani, ma con autenticità e rigore, dal sound di un’era che va dalla fine dei ‘50 alla prima metà dei ‘60.
La forza di queste tracce (come molte delle precedenti registrate da questo insolito blue-eyed soul man dell’Essex) risiede, oltre che nello strumento vocale, appena aspro e abraso, di Hunter stesso, nella seducente armonizzazione dei fiati tra loro e in come questi intercettino, nel sapiente gioco del sotteso contrappunto, la chitarra o le tastiere; piano o Hammond che sia. Esemplare eloquente, in tal senso, è già l’iniziale rumba I Don’t Wanna Be Without You, dai cui semplici incanti è difficile sottrarsi. Così, buona della restante parte del disco che, con l’esclusione di Blisters, ruspante blues strumentale per chitarra e orchestra, e di Don’t Let Pride Take You For A Ride, nulla più concede al ritmo serrandosi, invece, tra i confini della nostalgia e della riflessione. Magistrale, poi, How Long, esercizio gospel per voce, chitarra acustica e santificate armonizzazioni vocali a-la Persuasions.
Non sarà, forse, il suo disco più rappresentativo, ma ha il sottile potere di ammaliare, ad ogni ascolto di più. G.R.

THE REVEREND SHAWN AMOS

"Breaks it down"

Put Together Music Rec. (USA) - 2018

Moved/2017/Hold hands/The Jean genie/Freedom suite, pt.1: Uncle Tom's prayer/Freedom suite, pt.2: Does my life matter/Freedom suite, pt.3: (We've got to) Come together/Ain't gonna name names/(What's so funny 'bout) Peace, love and understanding

Per apprezzare compiutamente questo disco – e i motivi non mancano di certo – è necessario superare la consumata retorica, tutta USA (e getta!), del ‘love one another’ di cui sembrerebbe, in parte, permeato. In linea con la descrizione che Amos stesso ne dà - ‘21st century freedom songs’ -, potremmo ben considerare questo lavoro un concept album, che muove da considerazioni politiche e dalle conseguenze sociali che hanno recentemente coinvolto l’America, da Trump in giù, precipitandole, in modo più o meno velato, nelle proprie canzoni; e, in tal senso, 2017 ne costituisce l’emblematica sintesi.
Stilisticamente radicato nella tradizione più verace del blues, del soul e del gospel, ne ammoderna le linee adattandole a traghettare visioni contemporanee. Già l’iniziale Moved, apertura per chitarra, voce e armonica, mescola efficacemente il fango del Mississippi col sacro gospel di chiesa, ma l’apice del disco arriva col trittico centrale Freedom Suite: l’intensa implorazione a cappella Uncle’s Tom Prayer, moderna rilettura di un Bukka White in forma di sussurro gospel-rock e il più convenzionale soul-gospel Come Together, con citazioni tratte da Martin Luther King. Solo apparentemente avulse dal contesto, le due cover presenti: The Jean Genie di Bowie i cui versi minimalisti, ad esclusione del ritornello, vengono efficacemente restituiti come un mix sinistro di Tom Waits e Morphine e il classico di Nick Lowe Peace, Love and Understanding, squisito trionfo per pochi accordi e coro.  
Registrato nei Fame Studios a Muscle Shoals col supporto di ben noti musicisti di memphisiana scuola soul come Michael Toles, Charles e Leroy Hodges, Breaks It Down rivitalizza lo spirito degli Staples Singers e dell’era dei diritti civili alla luce dei tempi nostri. G.R.

TOMMY DARDAR

"Big daddy Gumbo"

Autoprodotto (USA) - 2018

It's good to be king/Headed down to Houma/Baby I can tell/C'mon second line/Let's both go back to New Orleans/Dangerous woman/In my mind/Shake a leg/Big daddy Gumbo

Creatura palustre, emersa dalle viscide fangosità della Louisiana, il mezzo sangue indiano Tommy Dardar  è stato un valente cantante e autore che mai ha visto adeguatamente riconosciuti i propri talenti in vita. Questo disco, infatti, segue la scomparsa di Dardar, avvenuta nel luglio 2017 e, se solo adesso abbiamo il piacere di poterlo apprezzare, lo dobbiamo principalmente alla caparbia volontà del batterista Tony Braunagel, suo amico e compare, che così fortemente ha voluto portare a compimento un lavoro iniziato – e lasciato inconcluso – nel 2001. A inizio secolo, infatti, risalgono le registrazioni di buona parte delle tracce qui presenti, realizzate con la partecipazione di musicisti di prim’ordine come Braunagel stesso, Johnny Lee Schell e il gran talento del piano Jon Cleary. A questi, si sono aggiunti posticci, Mike Finnigan e Barry Seelen all’organo, Joe Sublett al sax e una robusta corale capitanata da Teresa James. L’autocelebrativo, sagace shuffle a-la Elmore James It’s Good To Be King apre un’opera che, altrimenti, quasi tutto concede alla Louisiana e ai suoi ritmi. La pastosa voce di Dardar, infatti, spezia e remescia gli ingredienti di un gumbo che vede nel piano di Jon Cleary uno dei sapori più caratterizzanti: si ascoltino, per dire, le originali, melodiche citazioni di Fats Domino nell’inciso di Let’s Both Go Back To New Orleans o gli echi di Dr. John spuntare tra le note di C’mon Second Line. Ma dove il canto di Dardar diventa ruggito è In My Mind, autografo classic soul, buon viatico per struggimenti notturni. G.R.

LAURIE JANE & THE 45's

"Midnight jubilee"

Down In The Alley Rec. (USA) - 2018

Wait so long/Lucky boy/Midnight jubilee/Howlin' for my darlin'/Fine by me/Down this road/It's been a long time/Couldn't cry alone/Got me where you want me/What's a girl to do/Not with you

Il Kentucky non è propriamente terra di blues ma, nel suo essere terra di mezzo, raccoglie idealmente le influenze musicali delle aree a lei più prossime. Se, da lì, ci spostiamo a nord, poco ci vuole per raggiungere Chicago. Ad est andiamo in Virginia e nelle zone del Piedmont. Se, invece, ci spostiamo in direzione contraria incontriamo prima Memphis e, se ancora non ci si accontenta, proseguendo oltre si arriva fino al profondo sud di Mississippi, Louisiana e Texas. Ecco, Laurie Jane & The 45’s sono un quartetto che arriva proprio da Louisville, Kentucky e che, in questo Midnight Jubilee fa buon uso di tutte le differenti influenze che, lì, si respirano trasportate dal vento.
Sulla base di un suono decisamente vintage, la voce cristallina e sorgiva di Laurie Jane è il collante che amalgama una ritmica verace, di ispirazione rock’n’roll, con una chitarra dal carattere irrisolto e tentennante tra la slide nervosa di Couldn’t Cry Alone, quella in salsa country dell’iniziale Wait So Long e i virtuosismi classicheggianti ben rappresentati dal malinconico slow It’s Been A Long Time. Tra le tracce, spunta una gradevole atmosfera fifties che trasfigura in parte, con piacevolezza, anche Howlin’ Wolf e il suo Howlin’ For My Darlin’. G.R.

MICK KOLASSA and Friends

"Double standards"

Swing Suit Rec. (USA) - 2018

600 pounds of heavenly joy (feat. Sugaray Rayford)/I just want to make love to you (feat. Heather Crosse)/It's tight like that (feat. Victor Wainwright)/Fever (feat. Annika Chambers)/Nobody knows you when you're down and out (feat. Tas Cru)/Rock me baby (feat. Tullie Brae)/Key to the highway (feat. Eric Hughes)/Spoonful (feat. Erica Brown)/It hurts me too (feat. Patti Parks)/Early in the morning (feat. David Dunavent)/Don't you lie to me (feat. Gracie Curran)/Outside woman blues (feat. Jeff Jensen)/Ain't nobody's business (feat. all of the above)

Le canzoni presenti in questo disco, come evidente scorrendo la lista, coprono un'ampio territorio blues e un ugualmente ampio spettro di ben noti autori del genere. Meno noti, invece, sono alcuni dei “friends”, che talvolta appartenenti a una cerchia davvero intima, Kolassa schiera a duettare con lui.
Nata quasi per caso, l'idea di un intero disco di duetti ha preso forma ironizzando sul titolo del sagace 600 Pounds Of Heavenly Joy, registrato con Sugaray Rayford, dando quindi vita a un’operetta dove Kolassa, con la propria voce stagionata ed esperta, pare interpretare, non senza un pizzico di compiacimento, il ruolo del vecchio nonno che, con la partecipata collaborazione di tanti ipotetici nipoti, racconta un sacco di classiche e ben note storielle. Alcune vengono riproposte in una chiave interpretativa appena diversa: è il caso di Nobody Knows You When You’re Down And Out alla quale il violino di Alice Hasan conferisce un gradevole taglio country. Altre, invece, viaggiano più accostate al proprio spirito originale. Tra un repertorio di classici dove Willie Dixon e Tampa Red dominano la scena spunta, margherita tra le rose, la nervosa Outside Woman Blues mentre il suono dell’hammond di Chris Stephenson caratterizza, con toni schiettamente churchy, l’intero lavoro che raggiunge il proprio culmine nella conclusiva, corale Ain’t Nobody’s Business, riscritta e interpretata dall’intero seguito di ospiti assieme. G.R.

GABRIELE DUSI

"Startin' point"

Autoprodotto (ITA) - 2018

Wildness/Doc's guitar/Baby's coming home/The Pink Panther theme/Mr. Guitar/For Chuck/Life keeps goin' on/For the love of Mississippi John Hurt/I'll see you in my dreams/Lighthouse

E’ una finestra spalancata sugli agresti orizzonti del finger picking questo esordio del giovane virtuoso chitarrista veronese Gabriele Dusi. Divertimento a due mani per sola chitarra, realizzato col fattivo supporto di AZ Blues, Starting Point raccoglie una manciata di brani strumentali che pescano, in parte, dal repertorio tradizionale americano, Chet Atkins per primo, del quale vengono riproposti Baby’s Comin’ Home e Mr. Guitar e poi Doc Watson con la sua Doc’s Guitar. Ma, in parte, il disco si regge su composizioni originali dello stesso Dusi o di Lorenz Zadro (sua la dedica a Chuck Berry con For Chuck). La rilettura di Henry Mancini e del tema della sua Pink Panther vira, con gusto, verso nuove pieghe armoniche speziate di jazz avvalendosi, come qualche altro brano, delle percussioni discrete di Max Pizzano. La dimostrazione concreta del legame tra blues e finger style o viceversa si concretizza, invece, in un omaggio a Mississippi John Hurt di cui vengono fuse in forma di medley Make Me A Pallet On The Floor, My Creole Belle e Praying On The Old Camp Ground. Chiude questo ottimo, vivace dischetto, una crepuscolare Lighthouse. G.R.

GREG SOVER

"Jubilee"

Grounded Soul Rec. (USA) - 2018 - EP

Emotional/Jubilee/Hands on my heart/As the years go passing by/I give my love/Temptation (live)/Hand on my heart (short edit)

Pare quasi un obiettivo grandangolare questo disco e, data la generosità del percorso ottico, Greg Sover, attraverso le sue lenti, sembra stia ancora cercando di mettere a fuoco il proprio orizzonte, restringendo auspicabilmente, i già ampi contorni del campo visivo.
Jubilee segue a breve distanza Songs Of A Renegade, disco d'esordio, stilisticamente ben omogeneo quanto meno consistente e/o convincente riguardo ai contenuti musicali.
Qui, sebbene entro la dimensione spazio-temporale ristretta dell'EP, Sover lascia invece intravedere potenzialità in embrione che, ancora lontane dal manifestarsi appieno, marcano una delle due fondamentali differenze rispetto all'esordio. La seconda, è l'abbandono della precedentemente manifestata omogeneità, in favore di un'indeterminatezza di genere estrema e quasi schizofrenica. Andiamo, dunque, per sottrazione: togliamo l'iniziale Emotional, rock radiofonico di maniera, la ballad adolescenziale Hands On My Heart, proposta addirittura – quasi non fosse sufficiente una - in doppia versione e il leggero calypso I Give My Love, ciò che resta si muove indubitabilmente sui binari del blues definendo i contorni di un chitarrista a tratti anche inventivo (si senta il solo sul classico As The Years Go Passing By) e di un autore acerbo, ma con alcune buone intuizioni. Forse un po' poco, per il momento, ma un poco che può aiutare a capire qual è il terreno sul quale Sover sa e meglio può muoversi. Attendere, per vedere gli sviluppi. G.R.

JOHNNY FINK AND THE INTRUSION

"JFI"

Autoprodotto (USA) - 2017

Oh no/Hey hey hey/The fall/Let's hear some blues/Damn broke/Knew she was looking/Go away/Pain/It's alright

L'International Blues Challenge e altre manifestazioni, cloni più territoriali e meno noti della prima, hanno spesso il merito di costituire consacrazione ufficiale e potenziale ribalta per molte band. Anche Johnny Fink e i suoi Intrusion sono stati tra i beneficiari di queste nobili e, oggi, diffusissime iniziative. Formatisi originariamente nel 1992, arrivano soltanto ora a (auto)produrre il loro esordio discografico, proprio dopo aver partecipato ad alcune di queste “sfide” musicali. Non so se possano essere considerati, come la spesso roboante stampa americana li definisce, “the best kept secret in the midwest blues scene”; certo è che hanno tutte le caratteristiche per poter soddisfare il variegato popolo degli amanti del buon rockin' blues.
La formazione è il classico trio con occasionale aggiunta di tastiere: la chitarra di Fink, principalmente ossigenata dall'aria del Texas, non disdegna di infilare la slide e, in alcune occasioni, omaggia apertamente Elmore James e gioca, certo, il ruolo del leone abbandonandosi, spesso, a torridi slow blues. Un canto efficace e la presenza di soli brani autografi completano il quadro di un esordio meritevole e di pregevole fattura. G.R.

THE REX GRANITE BAND feat. Sarah Benck

"Spirit/matter/truth/lies"

Autoprodotto (USA) - 2017

Stop doing what you want/What you're missing/Cadillac car/Please send me someone to love/Sail away/Steamroller/Move along/Spirit, matter, truth, lies/Two trains/Sail away (part 2nd)

La voce cristallina, solo un po’ corrotta da lievi screziature nasali di Sarah Benck rilegge il Percy Mayfield del celeberrimo Send Me Someone To Love qui, sorprendentemente tracciato, nelle sue linee fondamentali, con tonalità acri e sferraglianti, dalla chitarra slide di Rex Granite.
E proprio la slide di Granite e la Benck, il cui agile, fremente strumento vocale rievoca una giovane Bonnie Raitt, sono i caratteri peculiari di questo vivace quartetto proveniente dal Nebraska che, musicalmente, si muove tra boogie alla Canned Heat, attitudini da jam-band e l’occasionale aggiunta, in una singola occasione (Steamroller), di fiati e armonica a conferire quella sfumatura, a mezza via tra gospel e soul, alla ricetta. Tolto il citato brano di Mayfield, il resto del programma, dunque, è interamente composto da pregevoli brani autografi la cui qualità evocativa trova la sua massima espressione tanto nell’omonima Spirit/Matter/Truth/Lies, quanto in Two Trains, moderna rivisitazione dell’antico, sinistro mito blues del crocicchio. G.R.

GUITAR JACK WARGO

"Keepin' it real"

Ascap Rec. (USA) - 2017

You don't feel the same/Power of love/Keep on keepin' on/Inventory blues/Shipwrecked/Nobody but you/No stranger/Only-est one/Blues holiday/She's got soul/Goin' down the road feeling bad/Sending out a message

L'efficacissima, rotonda apertura su uno slow blues, ben nutrito dalla chitarra di Wargo (che, in questo brano, si produce in citazioni di Albert King e Stevie Ray Vaughan) e dall'hammond di Mike Finnigan chiarisce bene i confini di un disco che, sebbene con sonorità moderne, raffinati arrangiamenti e un sapiente uso di percussioni, cori e tastiere, afferma perentoriamente la propria appartenenza al mondo del blues, del soul e dei loro più prossimi derivati.
Del resto, Wargo è chitarrista dall'esperienza vasta e anche poliedrica. Nel corso degli anni ha affiancato illustri nomi come Screamin’ Jay Hawkins, Hank Ballard, Billy Preston, Solomon Burke e, finanche, Ray Charles. Il cd è diviso, quasi perfettamente, a metà: una prima, blues e una seconda, più soul con un’unica, insolita, cover a fare da spartiacque; la rivisitazione in salsa barbecue di Woody Guthrie e della sua Goin’ Down The Road Feelin’ Bad. Il canto è affidato alla voce quieta e morbidamente screziata di AD Beal mentre, tra gli ospiti, nella sezione ‘guest vocalists’, troviamo addirittura le Sweet Inspirations. G.R.

JIM SHANEBERGER BAND

"Above and below"

Eigen Beheer Rec. (USA) - 2017

My way/Indifference/Above & below/Bright side/Ain't your daddy's blues/I can't sleep/Way down south/Just sayin' bro/Whole lotta soul

Non lo si liquidi come banale rock-blues quello che emerge dalle tracce di questo dischetto, perché non lo è. Quanto meno, non banale!
La giovane Jim Shaneberger Band, alla sua seconda prova, è un trio con la potenza sonora di un’intera band grazie a una ritmica davvero tonante, seppur equilibrata e ben amalgamata: batteria geometrica, dal timbro ricco e vocata all’arabesco; basso stentoreo, manifesto e incarnazione di un’elegante, cospicua presenza armonica.
Sugli acciai di questa salda impalcatura, s’erge la chitarra di Shaneberger, la cui voce contiene, sì, riflessi di Stevie Ray Vaughan ma, da lì, si spinge oltre. Tolti la ballata Bright Side dal chiaro appeal radiofonico e lo shuffle It Ain’t Your Daddy’s Blues, dimostrazione di quanto la band sappia interpretare, in quanto a timbro e tecnica, anche il blues più tradizionale, ciò che resta è una generosa manciata di brani autografi che, in più occasioni e pur nell’ambito di un genere noto, trovano i giusti spazi per proporre differenti armonie. G.R.

ROBERT FINLEY

"Goin' platinum"

Easy Eye Sound Rec. (USA) - 2017

Get it while you can/Medicine woman/If you forget my love/Three jumpers/Honey, let me stay the night/You don't have to do right/Complications/Real love is like hard time/Empty arms/Holy wine

Non è, poi, così raro che giovani agitati e agiati bianchi, cresciuti a punk, grunge e rock’n’roll, s’infatuino di oscuri artisti neri e ne producano la (ri)scoperta, tardiva ancorché feconda di spunti e rivelazioni. Ora, è il momento di Dan Auerbach dei Black Keys che afferra per i capelli e produce quello che non esita a definire “the greatest living soul singer”: Robert Finley. E le iperboli non si esauriscono qui se nel titolo si evoca, parrebbe pure, una sua aspirazione al disco di platino.
Ben al di là degli slogan, il disco di Finley, il suo secondo, potrebbe essere davvero candidato, non all’improbabile 'platino', ma quantomeno a essere considerato tra le uscite migliori che il 2017, nell’ora del suo volgere al 2018, ci ha saputo regalare. Protagonista di una vita difficile, fino all’altro ieri frequentatore di back alley e retrovie varie nonché romantica incarnazione del drop-out, Finley, che è chitarrista e cantante, abbandona lo strumento e si concentra interamente sul canto. Auerbach lo costringe in studio di registrazione, gli cuce appresso gente di sicuro mestiere ed esperienza come Gene Chrisman, Bobby Woods e l’icona della chitarra Duane Eddy, gli mette in bocca canzoni scritte da Nick Lowe, John Prine e Auerbach stesso e, grazie alla voce del nostro, vince facile.
La ghiaiosa mescola tenorile di Finley si distribuisce omogenea su un repertorio, prevalentemente up-tempo che oscilla, con agio, tra modernariato e retrò. C'è palpabile emotività nella bellissima, supplicante Medicine Woman come sagace ironia in Real Love Is Like Hard Time; fino alla sorpresa finale, tutta giocata in punta di falsetto, nella soffice, amorevole Holy Wine. G.R.

SYLEENA JOHNSON

"Rebirth of soul"

Shanacie Rec. (USA) - 2017

Make me yours/There'll come a time/We did it/The makings of you/Is it because I'm black/I'd rather go blind/Chain of fools/These arms of mine/Lonely teardrops/The monkey time

Il suo fascinoso strumento vocale, tinto di un castano scuro lievemente affumicato a celare occasionali, improvvise armoniche cristalline, s’immerge, coraggioso e mediamente trionfante, in un repertorio di grandi classici e qualche oscura gemma.
Figlia del vecchio ma ancora vivace e scalciante Syl, Syleena Johnson spiega così le ragioni di questo disco: “I wanted to honor my father and classic soul music in a time when auto tune and electronic beats reign supreme”. Detto da chi, per nulla nuova alle sale di incisione, ha fatto largo uso di elettronica e musicisti surrogati nei propri dischi precedenti, suona come un felice ritorno alla natura della propria originale appartenenza: culturale e famigliare. Onore al merito, dunque, ma non sempre lode al risultato.
Se la scelta di rileggere alcune sacre pagine del soul, già scolpite nella pietra e tramandate a imperitura memoria da Aretha Franklin, Otis Redding, Etta James, Curtis Mayfield, nel migliore dei casi, nulla aggiunge; talvolta toglie. E’ il caso, per dire, della riproposizione del classico di famiglia Is It Because I’m Black che, riletto da Syleena, perde l’urgenza di quel rassegnato lamento di rabbia soffocata intonato, nella versione originale (arrangiata, al tempo, da quel genio di Donny Hathaway), proprio dal padre. O di I’d Rather Go Blind, la cui versione di Etta James resta ancora inarrivabile. Discorso diverso per alcuni brani meno battuti e oggettivamente ben riusciti come There’ll Come A Time e Make Me Yours rispettivamente di due Betty: Everett e Swann. G.R.

THE MARKUS KING BAND

"Due north"

Fantasy Rec. (USA) - 2017 EP

What's right/This ol' cowboy/Slip back/Medley live: Sharry Barry-Sliced milk-25 or 6 to 4-I'll stay-Gloomy sunday

Accosta e mescola magistralmente elementi di southern rock, blues, funk, a forti dosi di improvvisazione di natura jazzistica questo breve, ma intenso EP della Markus King Band.
I pochi ventun anni non difettano affatto a questo chitarrista del South Carolina che dimostra tecnica, freschezza e un’invidiabile conoscenza dei generi che costituiscono gli ingredienti basilari della sua ricetta musicale. Con una vocalità ghiaiosa che ricorda un altrettanto giovane Gregg Allman, King parte dall’esplorazione dei territori che furono proprio degli Allman Brothers spalancando le finestre su quelle vaste praterie nelle quali l’abbandonarsi a lunghe cavalcate chitarristiche e/o strumentali diventa un fatto naturale. Da lì, spostandosi stilisticamente in direzione di quel nord già indicato nel titolo, incontra felicemente Gov't’Mule e Phish tanto che la presenza di Warren Haynes quale produttore, non stupisce. Forte di una band corposa, dalla decisa connotazione ritmica e fiatistica, King conclude il suo discorso con un lungo live medley da jam-band nel quale confluiscono, vigorosamente shakerati con l’originale Sharry Barry, Jeff Sipe, i Chicago e – sorpresa, sorpresa! - Billie Holiday la cui Gloomy Sunday viene audacemente, ma felicemente trasfigurata e trasposta in versione rock. G.R.

RONNIE EARL & THE BROADCASTERS

"The luckiest man"

Stony Plain Rec. (USA) - 2017

Ain't that loving you/Southside stomp/Death don't have no mercy/Jim's song/Heartbreak (it's hurtin' me)/Howlin' blues/Never gonna break my faith/Long lost conversation/Sweet Miss Vee/Blues for Magic Sam/So many roads/You don't know what love is

Si potrebbe scegliere a occhi chiusi uno qualsiasi tra i tanti dischi solisti incisi da Ronnie Earl e non si sbaglierebbe mai. Definito, con uno spericolato e molto americano senso dell’iperbole, “il John Coltrane della chitarra”, Earl, che fu, dopo Duke Robillard, anima distintiva dei Roomful of Blues, ha in comune, con Trane, la prolificità e la visione spirituale, divina della musica. E, anche questa volta va a segno con un lavoro che, come spesso è capitato, si dipana tra eccitanti shuffle (Aint’ That Loving You, Heartbreak) e intensi, torridi slow blues.
Come il precedente Maxwell Street era dedicato all’amico pianista Dave Maxwell, anche questo The Luckiest Man viene alla luce in coda a un nuovo lutto e in onore di Jim Mouradian, bassista dei Broadcasters, recentemente scomparso. Ancora una volta, la cifra rappresentativa dell’arte di Earl va ricercata nella voce del suo strumento, nella fluida, limpida liquidità del fraseggio, nella sensibilità e nell’intensità interpretativa di cui sono pregne le sue prove. Il rassegnato senso di perdita emerge evidente nell’acustica Death Don’t Have No Mercy evocata, con cupa profondità dalla splendida, vibrante voce di Diane Blue, già precedentemente partner occasionale di Earl che qui, invece, prende definitivamente possesso del microfono. Strumentalmente parlando, insieme a Earl, gioca la parte del leone, l’Hammond di Dave Limina mentre, come in passato, non manca il cameo di Sugar Ray Norcia che porta in dono il blues minore di Long Lost Conversation al quale immola la sua voce colloquiale e la sua profonda armonica cromatica. In mezzo al Ronnie Earl più tradizionale spuntano il gospel di Never Gonna Break My Faith, l’Otis Rush di So Many Roads e, sul finale, la sorprendente gemma del Fenton Robinson anni ‘70 e del suo You Don’t Know What Love Is. G.R.

ELI COOK

"High-dollar gospel"

C.R.8 Rec. (USA) - 2017

Trouble maker/The devil finds work/Mixing my medicine/Pray for rain/Can't lose what you ain't never had/King of the mountain/Mother's prayer/44 blues/I'll be your baby tonight/Month of sundays/If not for you

Eli Cook ha trentun anni, viene dalla Virginia e questo è il suo settimo disco. Suona principalmente con tecnica slide, imbracciando il dobro, la dodici corde e anche l’elettrica; e, a differenza di ciò che si potrebbe credere, lo fa non da solo, ma in compagnia di contrabbasso e batteria. Visto a occhio nudo, ha l’estetica da uomo del grunge, canta con una vocalità rauca che pare emersa da dense pastoie di pietre e nicotina e si fa interprete di un linguaggio musicale che miscela tutte le influenze assimilate durante un’infanzia solitaria, dedicata all’ascolto: blues, folk, cantautori.
Abilissimo chitarrista e anche fine autore, esauriti i primi due brani energivori, Cook cala il primo asso con la paranoica, inquietante Mixing My Medicine (….who’s been mixin’ my medicine...who’s tearin’ me up inside...), riuscito incrocio transgenico tra il Muddy Waters versione Folk Singer e la musica dei monti Apallachi. Attraverso le sue mani, sulla via del monte Tabor, altri due classici come You Can’t Lose What You Ain’t Never Had e 44 Blues trasfigurano: il primo, in un angosciato, spettrale lamento urbano post industriale; il secondo, in un più rassicurante racconto in punta di dita. Tra le delicate Mother’s Prayer e I’ll Be Your Baby Tonight, la rimanenza, frutto originale di una penna vivace, trova il suo culmine in King Of The Mountain, virtuoso e vigoroso connubio tra finger pickin’ e bottleneck, e le evocative suggestioni elettriche della profonda, uggiosa Pray For Rain. G.R.

THE LOVE LIGHT ORCHESTRA feat. JOHN NEMETH

"Live from Bar DKDC in Memphis"

Blue Barrel Rec. (USA) - 2017

See why I love you/Bad breaks/I've been wrong so long/It's your voodoo working/Sometimes/What about love/Poverty/Lonesome and high/Singin' for my supper/This little love of mine/Please send me someone to love/Love and happiness

John Nemeth scalcia da anni per ritagliarsi una giusta collocazione nel mondo del blues, armato del suo brillante, affilato tenore, della sua armonica, di cui è genuino stilista, e del suo fine talento d’autore. Ultimamente è prolifico (è appena uscito Feelin’ Freaky, suo ultimo lavoro solista), ubiquo (l’abbiamo sentito, per esempio, in chiave memphisiana coi Bo-Keys) e, a suo modo, innovatore.
Orientato nuovamente verso Memphis e abbinatosi alla locale The Love Light Orchestra che, tra l’altro, annovera, tra le sue fila proprio Joe Restivo e Marc Franklin, membri dei Bo-Keys stessi, rinnova gli antichi fasti delle grandi big band di R&B, delle storiche registrazioni della Duke e della Specialty, ma lo fa con una freschezza inattesa. Bobby Bland, dal quale viene mediato per parafrasi (dal celebre Turn On Your Love Light, forse) il nome della band costituisce, certamente, una delle maggiori influenze, tanto che il suo I’ve Been Wrong So Long, insieme a Poverty, ne costituiscono espliciti, raggianti omaggi. Junior Parker, Buddy Ace, Percy Mayfield sono alcuni degli altri legittimi occupanti di questo disco che, tra le righe, ci mette di fronte una novità. La novità è che, vocalmente, troviamo Nemeth collocato in una cornice, per lui, inedita, che restituisce alla sua immagine i sorprendenti riflessi del crooner. Uno strano effetto, questo, che Nemeth maneggia, un po’ divertito, con giocosa abilità grazie anche a una band e ad arrangiamenti decisamente fuoriclasse. Lo splendido live si conclude, poi, con un’ultima sorpresa: la trasposizione shuffle di Love And Happines. G.R.

ANDY T BAND feat. ALABAMA MIKE

"Double strike"

American Showplace Music Rec. (USA) - 2017

I want you bad (feat. Alabama Mike)/Somebody like you (feat. Alabama Mike)/Deep inside (feat. Nick Nixon)/Sweet thing (feat. Nick Nixon)/I feel so bad (feat. Nick Nixon)/Juanita (feat. Nick Nixon)/Mudslide/Sad times (feat. Alabama Mike)/Doin' hard time (feat. Alabama Mike)/Drunk or sober (feat. Nick Nixon)/I was gonna leave you (feat. Nick Nixon)/Dream about you (feat. Alabama Mike)/Where did our love go wrong (feat. Alabama Mike)

Si muove abbondantemente nel definito perimetro del più schietto Texas blues questo ultimo lavoro di Andy T (‘T’ sta per Talamantez) e del suo compare di scorribande Nick Nixon. Ma il duo, attivo discograficamente da qualche annetto, è qui diventato un trio tanto che, forse, il ‘doppio strike’ del titolo si riferisce proprio al fatto che, a differenza del passato, i cantanti sono diventati due: non solo più Nick Nixon che, dimissionario per ragioni di salute, qui figura come ospite, ma anche la new entry Alabama Mike col quale Nixon si spartisce, pressoché equamente, l’interpretazione dei brani. I sostantivi ‘duo’ e ‘trio’, però, non inducano in inganno: stanno solo a indicare quali sono i protagonisti dell’opera. Ma, in realtà, la band è ben nutrita e arrichita con un organo dal carattere forte e talvolta churchy e con la sezione fiati di capitan Kaz Kazanoff sugli scudi. Stilisticamente parlando, ciò che non è Texas, qui, o è soul come Sweet Thing o proviene da terre al Texas limitrofe come l’originale neworleansiano Where Did Our Love Go Wrong, che prende per mano e porta a spasso per le vie Dave Bartholomew e Fats Domino. Il caldo, avvolgente baritono di Nixon e il tenore squillante di Alabama Mike alternano abilmente le sfumature canore di un disco che, con la compartecipazione chitarristica e la sapiente produzione di un texano d.o.c. come Anson Funderburgh, non fa prigionieri. G.R.

MONSTER MIKE WELCH & MIKE LEDBETTER

"Right place, right time"

Delta Groove Rec. (USA) - 2017

Cry for me baby/I can't please you/Kay Marie/I can't stop baby/Down home girl/How long can this go on/Big mama/I'm gonna move to another country/Can't sit down/Cryin' won't help you/Goodbye baby/Brewster Avenue bump

Right Place, Right Time ovvero Otis Rush come paradigma, vocale e chitarristico.
Fin dalla paraffrasi del titolo, il celeberrimo mancino di Chicago è messo, qui, a fattor comune dai due cointestatari di quest’opera che interra, profonde, le proprie radici nel tributo a Rush da loro stessi interpretato durante l’edizione 2016 del Chicago Blues Festival. Ad allora risale, infatti, l’idea di queste registrazioni e la volontà di cristallizzare in forma discografica questo importante riconoscimento artistico.
Meraviglioso prosecutore di quel vibrato tellurico, di quel suono dall’intensità magmatica, pastosa e così tipicamente vocale, Welch è, di Rush, da sempre il devoto più puro e fedele. E, in questa sua simbiotica vicinanza a Rush, trova una corrispondenza vocale precisa, speculare proprio in Mike Ledbetter che, invece incarna, di Rush, la tipica, drammatica timbrica, il lancinante falsetto. Come nell’originale, la chitarra assume flessuose agilità marcatamente umane mentre la voce diventa strumento plastico teso in un costante interplay che rende difficile la distinzione dei confini dell’una da quelli dell’altra. Vero che, negli ultimi tre brani, l’ombra di Rush svapora in echi di B.B. King, ma resta fondamentale e rilevante la globale presenza pianistica di Anthony Geraci così come quelle di Sax Gordon, Doug James e Laura Chavez, ospiti. G.R.

MAMA SPANX

"State of groove"

Ideal Scene Music Rec. (USA) - 2017

Rocket/Wild emotion/Crawl/Being beautiful/Wrong side of the garden/Alligator boogaloo/Thinkin'/Anywhere you are/State of groove

Una buona quota di questo disco riprende e miscela, in parte semplificandola, la lezione di Tower of Power e Sly Stone, mantenendo, però, intatta la presenza di una sezione fiati dall’impatto granitico, dalla timbrica sferzante e dal contrappunto spesso ricercato e colto. Ad eccezione di Alligator Boogaloo, ripescata dal repertorio di Lou Donaldson e, qui, arricchita da un testo inedito, la restante parte dei brani - leggasi canzoni - è intero frutto della penna di Nikki Nelson, autrice e cantante.
Voce energica, dai riflessi ambrati e dal grido di afona rugosità, si muove agile nella sua cornice di funk & groove, solo occasionalmente infranta da intermezzi melodici (Wrong Side Of The Garden) o più schiettamente soul (Anywhere You Are). Ottimamente arrangiato da Ben Beckley, il disco si avvale anche della tagliente chitarra di Steve Johnson che, a tratti, con in testa Albert King, sorprende con qualche improvvisa virata blues. G.R.

BRIAN OWENS

"Soul of Cash"

Ada Cole Rec. (USA) - 2017

Ring of fire/Folsom Prison blues/Walk the line/Cry cry cry/Sunday morning coming down (feat. Austin Grimm Smith)/Long black veil (feat. Dylan McDonald)/Man in black/Soul in my country (feat. Rissi Palmer & Robert Randolph)

Ecco Johnny Cash trasfigurato in salsa soul!
In un’intervista a Rolling Stones, il giovane soulman Brian Owens afferma di considerare la musica di Johnny Cash alla stessa maniera nella quale considera la canzone popolare americana tutta, così come interpretata da Ella Fitzgerald, Frank Sinatra o Nat King Cole: ovvero, grandi melodie, grandi testi e un grande potere narrativo. E, a ben pensarci, questi sono proprio i tre fondamentali ingredienti che fanno grande una canzone. E partire dal repertorio di Johnny Cash, significa partire già da un inestricabile cumulo di grandi canzoni. Se a questo aggiungiamo che, nella stessa intervista Owens afferma anche di aver sempre considerato Cash un cantante fondamentalmente soul (e, in un certo senso, come dargli torto?), ecco che si delinea più netta la cornice dentro la quale campeggia il ritratto del cantante country filtrato, attraverso lenti scure, in questo disco. I brani scelti per l’operazione di maquillage (deliziosa la vena gospel di cui Cry Cry Cry resta intrisa) sono tra i più noti del repertorio di Cash, tutti approcciati con delicato rispetto da Owens, ai quali si aggiunge un solo originale, il conclusivo Soul In My Country (Robert Randolph ospite), che è quasi un’esegesi dell’intero disco. G.R.

JIM BYRNES

"Long hot summer days"

Black Hen Music Rec. (USA) - 2017

Step by step/The shape I'm in/Ain't no love in the heart of the city/There is something on your mind/Everybody knows/Deep blue sea/Weak brain, narrow mind/Ninety nine and a half (won't do)/Something inside of me/Anywhere the wind blows/Out of left fields/Long hot summer days

Ecco come l’amore vivo per la forma canzone, una voce dannatamente soulful e una visione acuta possano trasfigurare brani già ascoltati decine di volte in decine di modi, in qualcosa di differente. Long Hot Summer Days è questo: l’amore per il racconto e la capacità di utilizzare i giusti strumenti per rivelare, di quei brani, una luce nuova, intrappolata stretta tra le loro profonde pieghe.
Jim Byrnes è americano, ma canadese d’adozione. Nella sua vita ha fatto il musicista, l’attore e il doppiatore. Possiede, oggi, l’età e, da sempre, la pastosa, carezzevole voce di un nonno. Con un’ottima scelta di brani e di musicisti accompagnatori, tra i quali svettano come caratterizzanti l’opera, Steve Marriner all’armonica e Steve Dawson alle chitarre oltre che una robusta sezione fiati incide, sulla soglia dei settant’anni, ma con l’entusiasmo e l’energia di un vispo giovanotto, il capolavoro della sua vita. Byrnes esce trionfante dal misurarsi con Wilson Pickett, Robbie Robertson, Elmore James, Willie Dixon (la versione di Weak Brain, Narrow Mind è resa spettrale dal microfono posto a distanza) e Dan Penn; vincente, nel farlo con Leonard Cohen. Un po’ meno, col taglio country & western dato al Bobby Bland di Ain’t No Love In The Heart Of The City. Concentra, invece, in soli tre pregevoli brani, la percentuale originale di un disco che indica nella voce e nella singolare vena interpretativa le chiavi di lettura più appropriate. G.R.
KIM WILSON

"Blues and boogie vol. 1"

Severn Rec. (USA) - 2017

Bonus boogie/No love in my heart/Ninety nine/Worried life blues/You upset my mind/Teenage beat/Same old blues/Searched all over/From the bottom/Look whatcha done/Blue and lonesome/Sho nuff I do/Learn to treat me right/Edgier/Mean old Frisco/You're the one

Sarà stata la nostalgia del blues di vecchia scuola a far incidere a Kim Wilson questo Blues & Boogie che, dall’eloquente estensione ‘Vol. 1’ lascia intuire il chiaro intento di procedere ancora in questa direzione un domani? Probabile che sia stata davvero un po’ di sana nostalgia per la musica interpretata così come ai tempi dei suoi personali esordi da brillante armonicista!
Dopo aver spadroneggiato, al canto e all’armonica, in lungo e in largo ma, soprattutto, come leader dei Fabulous Thunderbirds e dopo essersi concesso, in tempi più recenti, interessanti e gustose esplorazioni dei terreni più prossimi al soul, forte anche di un’ugola ben propensa al genere, Wilson torna in studio con questa raccolta che comprende una manciata di originali e una buona dose di classici tratti dai repertori di vari santoni come Elmore James, John Lee Hooker, Little Walter e via dicendo. E tutto ciò lo fa in compagnia di alcuni tra i massimi esponenti contemporanei della tradizione blues: Big Jon Atkinson, Barellhouse Chuck, Billy Flinn. Mi pare ben chiaro, dunque, cosa ci si possa attendere di ascoltare qui, consacrato con il sigillo personale di Wilson. G.R.

POPA CHUBBY

"Two dogs"

Verycords Rec. (USA) - 2017

It's alright/Rescue me/Preexisting conditions/Sam Lay's pistol/Two dogs/Dirty old blues/Shakedown/Wound up getting high/Cayophus Dupree/Me won't back down/Chubby's boogie/Sympathy for the devil (bonus track live)/Hallelujah (bonus track live)

Popa Chubby popola l'immaginario e i timpani degli ascoltatori trasverali di rock e di blues da più di vent'anni ormai. I due cani cui fa riferimento il titolo di questo suo nuovissimo disco, ne spiegano la filosofia retrostante e si basano su una fiaba filosofico-spirituale: rappresentano i conflitti interiori che spesso albergano nell'animo umano quando ci si trova al bivio tra due differenti strade. La musica, invece, è quella che più facilmente ci si può attendere da Popa Chubby; quella che gli riesce meglio, abbandonati velleità e sperimentalismi: suoni energici, una chitarra sempre grintosa, ma intelligentemente misurata, qualche buona invenzione (Sam Lay's Pistol), un po' di ironia (Preexisting Conditions), un omaggio al Detroit sound (l’iniziale It’s Alright) e un’altro a Freddie King (Chubby’s Boogie). Il repertorio è interamente originale con l'aggiunta di un vecchio brano come Shakedown e, per ingolosire i palati, in chiusura, due cover in omaggio. Le celeberrime Sympathy For The Devil degli Stones, qui resa particolarmente frizzante e Halleluiah di Leonard Cohen, da Chubby già precedentemente interpretata e qui parzialmente rimaneggiata nel testo. Sono entrambe dilatate nei tempi e hanno il fascino delle registrazioni live, ma soffrono di una qualità audio da bootleg. Tra i musicisti che accompagnano Chubby, qui impegnato anche come ingegnere del suono e produttore, il tastierista Dave Keyes e, in qualità di trombettista e arrangiatore dei fiati, la figlia Tipitina. G.R.

McKEE BROTHERS

"Moon over Montgomery"

MBE Rec. (USA) - 2017

Pig feet/Confidential/I feel like dynamite/Worried about tomorrow/You know how I lie/Moon over Montgomery/Kicks/Bayou man/Go 2 work!/Where you gettin' it?/Runaway love/Late at night/Remember when/Flat, black & circular/Blues of the mounth club/Celebrate me home

Già assai ambizioso si era rivelato essere Enjoy It While You Can, primo progetto discografico dei due fratelli McKee (Denis e Ralph, rispettivamente chitarrista e bassista), uscito lo scorso anno. A breve distanza di tempo, però, eccoli tornati in studio per ripercorrere il medesimo sentiero del proprio esordio, estremizzandone risultati e confini. Come il precedente, anche questo secondo disco è caratterizzato dal coinvolgimento di un’inusuale quantità di musicisti (trentacinque in tutto e, tra questi, spiccano il chitarrista Larry McCray e l’ex Tower of Power Lee Thornburg), da una cifra musicale certamente elevata e da un’indeterminatezza stilistica solidamente radicalizzata. E’ un gigantesco calderone nel quale bolle di tutto: con arrangiamenti accuratissimi e armonie degne di una big band, più che diversi generi, riconosciamo tra queste tracce, diverse influenze che spaziano da Prince, The Temptations, Marvin Gaye, Ray Charles, Tower Of Power, Bruce Hornsby fino a Marcus Miller, Hiram Bullock e ai fratelli Brecker. In tutto ciò, trovano spazio anche un pizzico di gospel e un omaggio a Dan Penn con Blues Of The Mounth Club. G.R.

NICOLE WILLIS & UMO JAZZ ORCHESTRA

"My name is Nicole Willis"

Persephone Rec. (USA) - 2017

Introducing (feat. Ian F. Svenonius)/Break free (shake a tailfeather)/Hounted by the devil/One in a million/(Everybody) Do the Watusi/No child denied/Together we climb/When we go down/Togetherness/Final call (feat. Ian F. Svenonius)/Still got a way to fall

Nicole Willis è un’artista che sarebbe piaciuta tanto a Sharon Jones e che non sfigurerebbe affatto nel catalogo Daptone.
In questo suo ultimo disco compaiono sia tracce precedentemente composte come altre scritte espressamente per questa sua inedita collaborazione con la Umo Jazz Orchestra. E tutto il materiale gode di ariosi arrangiamenti da big band partoriti dalla mano sapiente del polistrumentista Jimi Tenor. La plastica vocalità speziata della Willis si muove con agilità in un contesto di ampia strumentazione che si concede estesi passaggi sui sentieri del northern soul e del funk, qui calati in un paesaggio arricchito da jazzistiche tonalità. All’interno di questa cornice, il canto della Willis si erge con un senso di decisa, ma controllata maestosità. G.R.

MANUEL TAVONI

"Back to the essence"

Autoprodotto (I) - 2017

Fight for my freedom/I'm talking about the blues/Free to be/Back to the essence/My baby doesn't speak/The party/Here with you/Walking down the river/When the world sleeps/My grandma/Angel of the night/I take a moment

Quest’esordio di Manuel Tavoni recita il mantra della coralità. Sebbene chitarrista (e cantante e autore di tutti i brani) e malgrado le indubbie capacità tecniche e un suono di chitarra poderoso, Tavoni non fa gare davanti allo specchio e non sembra ambire al vano titolo di 'next guitar hero'; lascia, piuttosto, che tanto il suo strumento quanto il resto della band insufflino il giusto ossigeno alle canzoni. Cosicché, Back To The Essence appare come una creatura dalle movenze facilmente armoniche e ben controllate. Soul, funk, blues e un pizzico di intelligente pop tracciano il perimetro di un disco che gode, nella sua interezza, di arrangiamenti curatissimi e sonorità moderne. E almeno un paio di brani, qui, sfoderano un deciso appeal radiofonico: penso a Free To Be e My Baby Doesn’t Speak, per dire. Mentre anche gli episodi più “tradizionali” come la titletrack sanno stupire con venature inattese, in questo caso il taglio gospel inserito dai cori.
E’ un esordio, sì, ma possiede già le carte giuste per abbattere, con fierezza, più di un confine. G.R.

LEONARD GRIFFIES

"Better late than no time soon"

Pangoboy Rec. (USA) - 2017

Look me in the eye/I'm not like that/I got news/What's a man to do/What you got is what you get/Leave this town/I do love you/You done stepped in it now/Goin' downhill/Ain't no happy home/Up and at 'em/Better late than no time soon/A dollar or two/I'm good where I am

La chitarra liquida e il canto abraso di Leonard Griffies si muovono con facile agio sulle tracce di questo Better Late Than No Time Soon. Disco dagli arrangiamenti e dai suoni estremamente curati, parente prossimo, in fatto di sonorità, ancorchè ammodernate, del Chicago West-Side sorprendentemente offre, con uno dei pochi brani che si distanziano da questo stilema, l’episodio più rimarchevole dell'intera raccolta. I Got News, infatti, sembra uscito direttamente dalle sale di registrazione della Memphis dei tempi d'oro, quando vi trafficavano anche i compianti Wayne Jackson e Andrew Love. Al netto di questo episodio e di un paio d’altri, Goin’ Downhill e Up And At ’Em, di chiara ispirazione jazzistica, il resto del programma segue, col supporto prezioso di una solidissima band con fiati, la via indicata un tempo da Magic Sam, adeguandola al presente e completandola con una scrittura interamente personale e generalmente felice. G.R.

CASSIE KEENUM & RICK RANDLETT

"Hauntings"

Fox Run Rec. (USA) - 2017

Seventh day/One more last time/Won't make that mistake again/All along/Hallelujah/She's gone/Early in the morning/Get lit/Minute man/Born with wings/How long

Duo blues di base in Florida, Keenum e Randlett, rispettivamente voce e chitarra, hanno entrambi storie musicali individuali alle spalle che convergono in questa neonata formazione, cementata attorno ad una sparsa strumentazione: un basso e un batteria riservati e l’armonica di Little Mike a ornare un paio di episodi.
Il materiale, quasi completamente partorito dalle penne dei due protagonisti, si dipana su trame fondamentalmente blues con occasionali venature di country e gospel nella mescola finale. Il tutto muove dalle magiche, sinistre atmosfere dell’iniziale Seventh Day per trasfigurare in episodi più sagaci e divertiti come Minute Man ("...he can’t do nothing better than my own right hand…"). Unica cover, in un disco di inediti, è la rilettura del lirico Leonard Cohen e della sua Hallelujah. Tanti si sono misurati con questo capolavoro, che soltanto Jeff Buckley ha saputo rendere più luminoso. Cassie Keenum e Rick Randlett, lontani dal ricavarne inesplorate profondità, la rileggono con una lunga introduzione strumentale arricchita da un delicato e sommesso suono di slide. G.R.

ALASTAIR GREENE

"Dream train"

Rip Cat Rec. (USA) - 2017

Dream train/Big bad wolf/Nome Zayne/Another lie/Song for Rufus/I'm the taker/Daredevil/Grateful Swagger/Rain stomp/Demons down/Iowa/Down to Memphis/Lucky 13

Alastair Greene, ovvero come trascorrere sette anni nella band di Alan Parson e riproporsi, solista, sotto le spoglie del blues-rocker. E Greene si ripresenta in tal veste con la sponsorizzante partecipazione di un esercito di ben noti ospiti. Sono, infatti, della partita, a dar maggior credito al protagonista, nell’ordine: Coco Montoya, Debbie Davis, Walter Trout, Mike Zito, Dennis Grueling e Mike Finnigan. E ognuno di loro aggiunge il proprio personale, distintivo tocco. Così, per esempio, Walter Trout insaporisce il torrido slow Another Lie, Debbie Davis aggiunge il suo esuberante gusto allo strumentale Greatful Swagger, Mike Zito si aggrega in Down To Memphis alla formazione base che, manco a dirlo, è il classico trio, ritmica più chitarra solista. Ad eccezione dell’inedito Nome Zayne, scritto da Billy Gibbons, il resto dei brani qui inclusi è interamente autografo. Stilisticamente, dalla rotta principale del rock-blues si discostano soltanto l’acustica, intimista Song For Rufus e Iowa, ibrida sperimentazione in vitro tra Grateful Dead e Allman Brothers. G.R.

JOEL DaSILVA

"Everywhere from here"

Track of Life Music Rec. (USA) - 2017

Shake/Everyday man/Down in the Delta/Chasin' the sun/Cadillac mama/Bad world/This day I bleed/Spell on me/Time heals all wounds/My brazilian soul

Il titolo è autoesplicativo: partiamo da qui e andiamo un po’ ovunque! Difficile, infatti, individuare un indirizzo stilistico univoco in quest’opera nuova del giovane DaSilva, chitarrista cantante di origini brasiliane ma chicagoano di adozione e frequentazione. A giudicare il ragazzo così, a occhio nudo, ci si potrebbe attendere del rockabilly calato tra le tracce e, in parte pure lo si trova. Ma questa sarebbe soltanto una faccia del poliedro musicale proposto. Le facce restanti sono le sinuose, ammiccanti Shake e Down In The Delta, la ballata rock di Everyday Man, il moderno country Chasin’ The Sun, lo shuffle di Cadillac Mama e Spell On Me così come la squisita rhumba con fisarmonica incorporata di Bad World. Su tutto, troneggia, mai invadente, la voce rotonda, corposa di una chitarra lontanamente ispirata, nel tono, a sua altezza B.B. King. G.R.

61 GHOSTS

"...to the edge"

Bluzpik Media Group Rec. (USA) - 2017  EP

Heartbeat/No one at your door/World gone crazy/If tears were dirt/Show me your scars/Passion tipped arrow

Nel dare uno sguardo alla copertina di questo EP e, più ancora al retro della stessa, nella fotografia sfocata di quel trio diretto ed essenziale che sono i 61 Ghosts pare già di intravedere quanto ci si può attendere dall’ascolto. Difficile aspettarsi del blues in senso stretto. Piuttosto, un insano incrocio tra Stooges, Morphine, Nick Cave. Non facevano certo blues questi balordi, ma Dio solo sa quanto blues avessero ascoltato nei loro anni formativi e ancora si potesse intuire tra le pieghe delle loro note mature.
Così si rivelano i 61 Ghosts in questo minidisco che prende il blues nella sua forma più sostanziale e torrida, gli sputa addosso salivate di primitivo rock’n’roll, roots, punk, garage, cantautorali visioni. La chitarra, la voce e i testi di Joe Mazzari sono echi del suo passato coi New York Dolls e Johnny Thunders e la batteria di Dixie Deadwood è quella di chi accompagna abitualmente uno come Leo “Bud” Welch. A loro, si aggiunge il voluminoso basso di J.P. Sipe. Il risultato: come se Rory Gallagher e Bob Dylan si ritrovassero, una sera, per suonare un po' di Mississippi Hill Country Blues! G.R.

GABRIELE DODERO

"Stories for a friend"

Blues Made In Italy Rec. (I) - 2017

Stagger Lee/Hard time killin' floor/Deep river blues/The cape/Saturday night shuffle/Coyotes/Trouble in mind/Going down the road feelin' bad/Feelin' good/I want Jesus/El coyote/Windy and warm/I shall not be moved

Nell’excursus musicale del padovano Gabriele Dodero ci sono diversi strumenti e percorsi. Qui, però, tutto torna al punto di partenza, a quella chitarra acustica, amata fin dal principio e ora resa protagonista indiscussa, insieme al canto e alle parole, in Stories For A Friend. Il disco si basa interamente sulla preziosa dialettica tra chitarra e voce e si snoda, in solitaria, su un itinerario musicale fatto di classici, intesi tanto come brani così come autori. Basta dare una rapida scorsa alla playlist per capire che non di solo blues vivrà l’ascoltatore, ma di ogni più tipica espressione popolare d’oltreoceano: folk, spiritual, country. Qui, Dodero, sceglie di raccontarsi attraverso le voci di autori i più diversi, ma tutti accomunati dal senso di un’intima, profonda narrazione. Così Skip James convive con Doc Watson, Merle Travis, il sommo Guy Clark e una sorprendente, personale rilettura della Nina Simone di Feelin’ Good. Un disco raccolto, sommesso e, ad un tempo, intenso. G.R.

ROB LUTES

"Walk in the dark"

Lucky Bear Rec. (CAN) - 2017

A little room/There's no way to tell you that tonight/Pumping love/I am the blues/Whistling past the graveyard/Walk in the dark/Spence/Rocky mountain time/Bigger/Rabbit/Hardest thing of all/Believe in something/Better past

Posto comodamente sull’intersezione tra folk, roots, americana, blues e canzone d’autore, il canadese Rob Lutes confeziona quello che non fatico a considerare come uno dei migliori dischi unplugged dell’anno. In realtà, il blues come definita forma musicale qui non è apertamente manifesto; lo si può solo scorgere, in modo più o meno netto, in filigrana, controluce, in una buona parte del disco o scovato nel motivo ispiratore di There’s No Way To Tell You That Tonight, ballata dedicata a James Cotton.
Canadese come Paul Reddick, ottimo autore come Paul Reddick, evoca un po’ l’animaccia di Reddick, come fosse ripresa dai suoi Villanelle o Sugarbird, in questo che, di Lutes, è il settimo disco ed è composto, al netto di una rilettura del John Prine di Rocky Mountain Time, interamente da brani autografi. Registrato, in un paio di giorni, lo scorso gennaio, Lutes pare dirci, già attraverso il titolo, quanto questo Walk In The Dark sia stato un viaggio nell’ignoto. Come se, arrivato in studio, le canzoni gli si fossero rivelate quasi al pari di un mistero che, improvvisamente, un gruppo di ottimi comprimari ha contribuito a disvelare. G.R.

ANDREW CHAPMAN a.k.a. JOJO

"Well, it's about time"

UpIsland Rec. (USA) - 2017

That's the kind of day I had today/Face of love/Harley hotstuff/Still got the message/You've got a lover/The fit & the feel/She don't mess with my buzz/Will you recognize me/Bag of bones/Plane ride from Paris/That takes some balls/Talk to me/Butterfly

La storia di Andrew “JoJo” Chapman si accompagna a quella del bassista, polistrumentista, autore, e produttore Terry Wilson. I due si incontrano, fondano la band dei Bloontz e iniziano a suonare, in Texas, nei primi anni ‘70. Malgrado, per ambizioni e capacità, siano entrambi indirizzati verso una carriera di successo, poco più in là, Andrew Chapman, schifato dai putridi contorni dell’ambiente musicale, si allontanerà da quel mondo per abbracciare la vita del comune mortale, lavorando prima come gestore di alberghi e, poi, entrando nel settore della finanza.
L’amore per la musica, però, non lo abbandonerà mai e, tra un investimento e l’altro, continuerà a scrivere ottime canzoni. Canzoni argute, intriganti, da vero, capace autore. Così, il sogno lungamente coltivato da Chapman e Wilson di incidere insieme si realizza con questo eloquente Well, It’s About Time. Prodotto da Wilson stesso, con la compartecipazione di Tony Braunagel, il disco si apre con la bellissima, neorleansiana That’s The Kind Of Day I Had Today. New Orleans tornerà, poi, ad accennarsi con She Don’t Mess With My Buzz, mentre The Fit & The Feel riporterà alla mente i Beatles di Sgt. Pepper's. Ma, al netto di qualche sporadica divagazione country & soul Well, It’s About Time ci rivela un personaggio assai interessante, fermo al bivio tra Delbert McClinton e Southside Johnny. G.R.

SCOTT ELLISON

"Good morning midnight"

Red Parlor Rec. (USA) - 2017

Sanctified/No man's land/Gone for good/Last breath/Hope and faith/Another day in paradise/You made a mess (outta me)/Good morning midnight/Tangled/Wheelhouse/Big city/Mysterious/When you loves me like this

Noto per i suoi lavori in studio con Eric Clapton, JJ Cale e Bonnie Raitt, Walt Richmond è il produttore e coautore del nuovo disco di Scott Ellison, il nono nella carriera di questo valido chitarrista dell’Oklaoma, già in forze, al tempo che fu, nella band del leggendario Clarence ‘Gatemouth’ Brown.
L’album, che contiene un paio di sconfinamenti a sorpresa nei territori del reggae (Hope And Faith) e del jazz (Wheelhouse), nella sua restante parte si assesta su solide fondamenta blues, con l’aggiunta occasionale di un pizzico di rock e di qualche spezia fuori ricetta a partire dall’iniziale Sanctified, brano principe del disco, dalle sonorità palesemente neworleansiane, felice incontro di second line e coretti gospel. L’album coinvolge una ventina di musicisti differenti e il canto è equamente ripartito tra Ellison stesso e il roccioso Chris Campbell. A fare da denominatore comune, la vigorosa chitarra di Scott Ellison, spesso eloquente nei suoi espliciti rimandi a Freddie King. G.R.

WILD MEG & THE MELLOW CATS

"Scorched!"

Autoprodotto Rec. (I) - 2017

Oakie boogie/Love me right/Nursery rhyme rock/Scorched/Money blues/Baby girl of mine/Till the well runs dry/See see rider

Gli anni di mezzo del secolo scorso e loro colonna sonora portante, il R&B rivivono, rispolverati con cura, competenza ed evidente passione, in questo disco d'esordio di Wild Meg & The Mellow Cats. La band è un combo, compatto e dinamico, di musicisti che dimostrano di ben conoscere il genere in questione. E il repertorio che propongono con Scorced! rievoca, con gusto e brio, tutti i fasti di quel periodo storico pescando, le canzoni inserite in scaletta, direttamente dal campionario di alcuni tra i santoni dell'epoca come Sister Wynona Carr, Varetta Dillard, Bobby Sharp. L’unica deviazione cronologica è costituita dalla conclusiva See See Rider di Ma Raney. A maneggiare con sicurezza questo pugno di brani, la voce convinta, decisa e dai deliziosi riflessi scuri, di Wild Meg a cui si affianca la chitarra di Mat Miglioli, in più occasioni protagonista di interventi squisitamente inventivi. G.R.

JOHN PRIMER & BOB CORRITORE

"Ain't nothing you can do!"

Delta Groove Rec. (USA) - 2017

Poor man blues/Elevate me mama/Hold me in your arms/Big leg woman/Gambling blues/Harmonica boogaloo/Ain't nothing you can do/For the love of a woman/May I have a talk with you/When I leave home

Dalla Windy City, tira forte un’aria di southside. Del resto, cosa ci si potrebbe mai aspettare da uno come John Primer se non del sano, genuino Chicago Blues. Uomo della vecchia scuola, mai smentita o rinnegata, coi muscoli ben allenati e ancora tesi dai lunghi anni di palestra con Muddy Waters prima e Magic Slim poi, si presenta nuovamente in accoppiata con l’armonicista Bob Corritore, compare dall’indubbia, già dimostrata, affidabilità e con pari affinità stilistiche. I due ripropongono, in questa nuova uscita, alcuni brani che non sono, per Primer, dei veri e propri inediti essendo già stati da lui precedentemente incisi, anche se su altre, meno blasonate, etichette come l’austriaca Wolf. E lo fanno avvalendosi, qua e la, del supporto di alcuni personaggini molto ben radicati nel contesto chicagoano come il giovane Big Jon Atkinson e Barellhouse Chuck. Completa il quadro, il prezioso cameo di un cimelio storico come il novantenne pianista Henry Gray.
Non sarà un caposcuola John Primer, ma la sua chitarra e la sua slide si distinguono e restano testimoni, tra gli ultimi, di una lunga, immortale tradizione. G.R.

JOHNNY RAY JONES

"Feet back in the door"

Moondogg Rec. (USA) - 2017

Feet back in the door/Hole in your soul/Come up and see me sometime/High cost of loving/Hard times won/Love-itis/I'm a bluesman/A certain girl/In the heart of the city/Hearts have turned to stone

Sebbene questo sia il primo disco solista dell’illustre sconosciuto Johnny Ray Jones, a ben vedere, proprio proprio sconosciuto non sembrerebbe. Il suo curriculum, infatti, ci ricorda i trascorsi come vocalist con Sam “Bluzman” Taylor e Big Joe Turner oltre che i vanti di una presenza costante sulla scena blues di Los Angeles e dell’avere avuto Tina Mayfield, vedova di tanto Percy, per madrina.
Questo disco, però, ha avuto una lenta, lentissima gestazione. Le registrazioni, infatti, sono cominciate ben ventidue anni fa quando furono registrate quattro delle dieci tracce che compongono Feet back in the door. Le successive sei, invece, risalgono al passato biennio 2015-2016 e, aggiunte alle precedenti, sono andate a formare un solido e ben amalgamato esempio di moderno R&B. Supportato da un manipolo di musicisti solidissimi come Tony Braunagel (qui, anche produttore), Joe Sublet, Johnny Lee Schell, Mike Finnigan e una robusta sezione fiati, Johnny Ray Jones muove le sue corde vocali su un repertorio che include piccole gemme scritte da alcune tra le migliori penne in circolazione come Arthur Adams, Allen Toussaint o Leon Russell. A ciò, aggiunge un unico brano autografo, In the heart of the city, timida dimostrazione di non banali capacità d'autore. Con una voce che è un po' Long John Baldry, un po' Tony Joe White, Jones offre, con consumata sicurezza, alcune ottime interpretazioni: dall’iniziale titletrack che beneficia di una chitarra copia carbone, per stile e suono, di quella di B.B. King,  alla meravigliosa Certain girl. Il suono Stax detta ancora legge in Love-itis, vecchio hit della J. Geils Band mentre Coco Montoya partecipa alla buona riuscita di Hole in your soul. Unico brano la cui interpretazione vocale non convince a fondo è I’m a bluesman le cui versioni precedenti di Z.Z. Hill e Bobby Bland restano ancora imbattute. G.R.

SCOTTIE MILLER BAND

"Stay above water"

Vulfy Rec. (USA) - 2017

Burned all my bridges/Keep this good thing going (feat. Ruthie Foster)/Stay above water/Falter/Same page/It better groove/Guardian angel/Circles/It's what you do/Rippin' and runnin'/Come along/Goodbye

C’è veramente molto di buono in questo ultimo disco di Scottie Miller e la sua band. Per primo, le canzoni: tutte originali, frutto della propria penna e ricche di quello spirito talvolta ironico, talvolta profondo, eredità diretta dei migliori autori legati a questo genere. Poi, la musica. Il disco è un riuscito mix di funk, soul, R&B e neworleansiane vibrazioni perfettamente suonato e arrangiato, al cui centro spiccano una voce rauca, catramosa e il gustosissimo piano di Scottie Miller stesso le cui note tradiscono, con fierezza, una certa passione per Dr. John. Dopo aver lavorato a lungo come pianista nella band di Ruthie Foster, Miller comincia a mostrare tutti i suoi talenti con una manciatina di dischi ai quali segue, ora, questo Stay Above Water dove la stessa Foster partecipa come ospite, illuminando con leggere tonalità gospel Keep this good thing going. La band è un quartetto coi fiocchi, allargato a una rocciosa sezione fiati. Solo un paio di brani stilisticamente cozzano un pelo col resto dell’opera, ma testi arguti e introspettivi, ritmi danzabili, qualità musicale davvero elevata rendono questo disco, rivelatore di diversi talenti, godibilissimo sotto innumerevoli aspetti. G.R.

WILLA

"Better days"

Building Rec. (USA) - 2017

Love looks good on me/Stop, drop and roll/Hooked on you/Hey little sister/Better days/Caroline/Look what we've done/Mama needs some company/Crazy man/Say what/Opposite of lonely/Demons

Dopo anni trascorsi come corista nella band dell’armonicista Chris O’Leary (che qui compare gradito ospite in Hey little sister), Willa Vincitore si disvela, in questo suo esordio solista, sorprendente autrice e vigorosa vocalist. Strumento vibrante e potente, solo all’occorrenza addomesticato come nella soul ballad omonima Better days e in pochi altri episodi intimi, la voce di Willa si adatta con grande agilità a una tavolozza di brani che, a eccezione di un paio di questi e come da recente gran moda, spaziano tra blues, funk, soul e occasionali accenni di pop, rendendo sempre più evanescenti i confini tra i generi.
A metà strada tra Bonnie Bramlett e la bella copia di Susan Tedeschi, Willa apre bene l’opera con l’up-tempo Love looks good on me, dal finale giubilante e churchy, e la conclude col torrido blues acustico, per slide e voce, Demons. Tra questi etremi, si discostano un po’ dal solco della tradizione, l’acustica e folk Caroline e la soffusamente jazzata, incantevole Opposite of lonely. La frase e l’intonazione sono costantemente, felicemente sicure e, sia sui tempi veloci che su quelli più lenti, tanto il suo range espressivo quanto quello estensivo emergono chiari in tutta la loro lucentezza. Band estesa ai fiati e un repertorio interamente autografo concorrono a completare il quadro di un esordio davvero promettente. G.R.

LIGHTNIN' WILLIE

"No black, no white, just blues"

Little Dog Rec. (USA) - 2017

Can't get that stuff/Eyes in the back of my head/Locked in a prison/San 'n blue/Note on my door/Heartache/Fuu and fight/Phone stopped ringing/Thinking of you/Shake my snake

Texano d’origine, ex leader del gruppo blues & roots dei Poor Boys, Lightnin’ Willie è interprete di un blues senza fronzoli, ricco di groove e finanche di humour. Il titolo del disco, l’ottavo da solista, ben riassume la sua filosofia e il suo sguardo concreto sul mondo della musica. Il blues è un genere daltonico, sembra dirci: conta soltanto l’interpretazione in sé, non il colore di chi lo interpreta. E questo ideale credo è, qui, ampiamente supportato dai fatti. Ci sono una buona dose di shuffle e schietto blues dal taglio ruvido con occasionali sconfinamenti nei vicini territori della Louisiana con le sonorità cajun di Sad’n blue o del R&B anni ‘50 con Locked in a prison o ancora la soffusa ballad Thinking of you. C’è la rumba di Heartache e c’è Phone stopped ringing che ricorda ben da vicino l’Otis Rush di All your love o, ancora, l’iniziale Can’t get that stuff, con il fantastico pianoforte di Doña Oxford e il conclusivo, irriverente, boogie-a-la-Hooker Shake my snake.
Sono tante le influenze assimilate e qui presenti che, energicamente centrifugate da Willie danno vita a qualcosa che suona come un’amalgama sua propria e dannatamente omogenea. G.R.

JOHN McNAMARA

"Rollin' with it"

Bahool Rec. (USA) - 2017

One, two of a kind/Bad reputation/Ask me nothing (but about the blues)/Wild out there/Under the weight of the moon/One impossible night/Security/Blind man/You wouldn't wanna know/Suffering with the blues

Con questo Rollin' with it, l'australiano John McNamara, vola a Memphis e si costruisce una comoda edicola nella quale esporre alla pubblica adorazione le sue doti di chitarrista, misurato ma sferzante, e di voce soul dal graffio felino, talvolta all'apparenza un po' artefatto, ma sempre convincente. E l'operazione, invero, gli riesce anche piuttosto bene.
Dopo essersi fatto notare all' edizione 2015 dell'International Blues Challenge, va in pellegrinaggio sulla Union Avenue, assolda buona parte dei musicisti storici della Stax Records, entra agli Ardent Studios e registra questa ottima prova. Anche se, ad accompagnarlo, ci sono pesi massimi del luogo come Lester Snell, Michael Toles, Steve Potts, Lannie McMillan, Jim Spake, il ragazzo non è necessariamente uno che vuole vincere facile. La maggior parte dei brani qui inclusi sono frutto della sua penna e il talento dell'autore c'è, indubbiamente. Tuttavia, forse con sfrontatezza, forse con devozione, osa pure misurarsi con un poker di brani il cui livello originale è di ben difficile doppiaggio. Sfida, per così dire, Bobby Bland, Little Milton, Little Willie John e Otis Redding rispettivamente su Ask me nothing but about the blues, Blind man, Suffering with the blues e Security; queste ultime due, soprattutto, rese davvero con sorprendente efficacia. Tra i brani autografi si segnalano, su tutti, la notturna Under the weight of the moon e One impossible night: originali e moderne quanto basta. G.R.

LAUREN MITCHELL

"Desire"

Lauren Mitchell Rec. (USA) - 2017

(I don't need nobody to tell me) How to treat my man/Soul music/Desire/Jump into my fire/Good to me as I am to you/Feel so good/Stand up like a man/Today/I ain't been (licked yet)/Anti-love song/Bridge of my dreams/Lead me on/Brown liquor

Lauren Mitchell ci ha servito l'antipasto nei due precedenti album. Con Desire, che è il terzo nato dal grembo di questa cantante di Tampa (Florida), arrivano le portate serie. Contralto ghiaioso e corpulento affronta, qui, un repertorio di cover ben scelte, pescate nei 'songbooks' di Diana Ross, Aretha Franklin, Betty Davis, Bettye Lavette riproponendo, di quest'ultima, una superba Stand up like a man. Nel mezzo di questi tributi, non fa mistero alcuno del suo amore sconfinato per Etta James, della quale reinterpreta How to treat my man e Jump into my fire; lì, anche la sua voce, pur nel dovuto rispetto delle differenze, rincorre, per timbro e impostazione, quella del suo idolo. Ma non sono soltanto cover quelle che luccicano! In questo disco, mirabilmente prodotto dall'iperattivo Tony Braunagel, la Mitchell si dimostra anche valente autrice e lo fa in quattro occasioni, la più memorabile delle quali è rappresentata proprio dal brano omonimo, Desire, piccolo capolavoro che mescola le paludi della Louisiana con quelle del Delta. G.R.
LAURA TATE

"Let's just be real"

811 Gold Rec. (USA) - 2017

Nobody gets hurt/If that ain't love/Hitting on nothing/Can't say no/Boys are back in town/Still got the blues/I'll find someone who will/Let's just be real/I know you lie/I need a man/Big top hat/Wildest dreams

Nei precedenti episodi della sua discografia (tre), la quieta, rassicurante voce di Laura Tate era ben calata in contesti jazzy e colloquiali, più confacenti al suo strumento. In questa nuova, ultima prova, invece, la troviamo immersa, un po' a sorpresa, in un moderno scenario rockin' soul-R&B. Accompagnata da una ricca band nella quale spiccano il solito Tony Braunagel, la coppia Teresa James-Terry Wilson (quest'ultimo, produttore del disco) e una robusta sezione fiati guidata e arrangiata da Lee Thornberg, reduce dai recenti impegni con Joe Bonamassa e Beth Hart, Laura Tate, pur non proprietaria di una voce particolarmente personale, si dimostra interprete versatile, elegante e dinamica, districandosi con scioltezza, in un repertorio variegato che la porta ad affrontare gli autori più diversi, spingendosi a rileggere addirittura Boys are back in town, vecchio hit di Phil Lynott e dei suoi Thin Lizzy. G.R.

JIM ROBERTS & THE RESONANTS

"Beneth the blood moon"

KKP Rec. (USA) - 2017

Beneth the blood moon/Dog bone bit my baby/Tupelo fool/Bayou beau/May all your regrets be small/Gold train fever/Red lips and high heels/Southern hospitality/Dark down in the Delta/The hell hound's due

Per gli amanti delle categorie e delle definizioni, ne esiste una così inglobante e definitiva da poter essere comodamente utilizzata al bisogno per descrivere, comunque bene, un vasto insieme di produzioni musicali, sollevandoci da ogni impiccio. Questa definizione è: Americana. Laddove con questo termine, appunto, si usa indicare un genere musicale contemporaneo che abbraccia diversi stili di roots music: blues, southern-rock, cajun, country e via elencando. E questa definizione calza perfettamente su Beneth The Blood Moon.
Dopo un ventennio di assenza dalle scene musicali, Jim Roberts ritorna alle vecchie passioni mai sopite dimostrando che, malgrado anni e tempo trascorsi, la forma non gli difetta ancora. A brillare, in questo disco, sono la sua efficace penna di autore (tutti i brani presenti sono farina del proprio sacco) e la sua chitarra slide che si muovono su un terreno sudista, ora inumidito dalle paludi della zona, ora seccato da un sole texano che riverbera lontani echi di ZZ Top e lievi ombre di blues. A supporto, l’ottimo hammond di Mike Finnigan. G.R.
 
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