Dischi 5 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

JOHN "BLUES" BOYD

"The real deal"

Little Village Foundation Rec. (USA) - 2016

I am the real deal/You will discover/I'm like a stranger to you/That's big!/The smoking pig/That certain day/Dona Mae/I'm so weak right now/When your eyes met mine/Screaming in the night/(Have you ever been to) Marvin Gardens/Be careful with your love/John, the blues is calling you

...if you're in the mood for something lowdown / you want some blues you can really feel / you don't have to look no further people / because I am the real deal...”.
Questa citazione ricavata dal ritornello dell'omonimo brano di apertura, uscito, come un paio d'altri qui contenuti, dall'arguta penna di Rick Estrin, insiste sul concetto autocelebrativo - e ricorrente nel blues - di real deal, concetto ampiamente rappresentativo, peraltro, di ciò che attende l'ascoltatore nel prosieguo della playlist. Qui, l'incedere lievemente drammatico, reso ancor più minaccioso dal tono minore e da un “basso ostinato” di pianoforte, contrasta deliziosamente con l'altrettanto lieve, compiaciuta ironia del testo.
Registrato dall'iperattivo e talentuoso Chris “The Kid” Andersen nei suoi sempre ben frequentati e affollati studios californiani, The Real Deal rappresenta l'opera prima di questo sconosciuto cantante, la cui scoperta merita, certo, qualche breve nota biografica. Originario del Mississippi, cugino del ben più noto pianista Eddie Boyd (quello della celebre Five Long Years per intenderci), come da cliché anche lui, prima, raccoglitore di cotone e, anche lui, poi emigrato al nord, in California, dove lavorerà come muratore. Da sempre cantante per diletto, diventa professionista solo nel 2014, da vedovo, pensionato e all'età di sessantanove anni. Sotto la tutela artistica di quel Jim Pugh, ex storico tastierista di Robert Cray, e della sua benemerita Little Village Foundation, incide questo favoloso dischetto che lo rivela prolifico autore (al netto dei tre ascrivibili al già citato Estrin, i restanti brani presenti sono opera sua) oltre che cantante.
Strumento pastoso, dal timbro paterno e colloquiale, dalle solo occasionali venature feline, a metà strada tra crooner e shouter, ben si crogiola tra gli arrangiamenti ampi e il suono imponente sprigionati da una band che, in più occasioni, somiglia a un vecchio “gregge” scappato dalla Kansas City dei tempi d'oro di Big Joe Turner e Pete Johnson. Lo spettro di Junior Parker aleggia beato tra le note di You Will Discover mentre quello di T-Bone Walker appare, in forma di shuffle, sullo sfondo di That Certain Day. C'è spazio anche per l'Albert King del periodo Stax, ben oltre le pieghe di I'm So Weak Right Now e di quell'altro King, B.B., nella danzante, romantica When Your Eyes Met Mine che ben contrasta col tono minore del successivo, tormentato slow Screaming In The Night, racconto di un ricorrente incubo premonitore. Torna T-Bone Walker e incontra Sonny Boy Williamson II in Marvin Gardens; poi l'opera si chiude proprio come si era aperta, sui toni autocelebrativi di John, The Blues Is Calling You, metafora del bluesman come incarnazione di una volontà e un richiamo superiori, il Blues appunto.
John “Blues” Boyd non ci rivela nulla di nuovo, ma ci offre qualcosa di gioiosamente bello e sorprendente. Gli ingredienti del piatto sono assai semplici e noti, ma i cuochi all'opera così di livello (ai già citati Rick Estrin, Jim Pugh e Chris “The Kid” Andersen aggiungiamo pure Big Jon Atkinson, Terry Hank, June Core per dirne alcuni) e la preparazione, la cottura e la presentazione così accurate da dimostrare quanto un semplice menù da trattoria possa diventar degno di un ristorante stellato. G.R.


JANIVA MAGNESS

"Love wins again"

Blue Elan Rec. (Usa) - 2016

Love wins again/Real slow/When you hold me/Say you will/Doorway/Moth to a flame/Your house is burnin'/Just another lesson/Rain down/Long as I can see the light/Who will come for me


Molto di ciò che oggi viene passato per soul o pseudo tale, di fatto, è spesso un ibrido che lambisce ben più facilmente i terreni del pop, più o meno radiofonico, che altro.
Ad un ascolto superficiale e frettoloso, alcuni dei brani presenti in questo disco potrebbero subire la sorte di finir confinati proprio in questa implicitamente screditata categoria. E ad un ascolto superficiale, non mi sentirei di biasimare tanto chi, eventualmente, li collocasse in questo limbo. Tuttavia, ciò che davvero Janiva Magness opera con Love Wins Again è una piccola, grande rivoluzione: discografica, personale, stilistica.
L'etichetta che lo pubblica non è più la colossale Alligator dei più recenti, ottimi, dischi che l'hanno definitivamente consacrata tra le voci migliori e tra le migliori interpreti del panorama contemporaneo e che, allo stesso tempo, la mantenevano ancorata a generi un po' più definiti e maggiormente affini a una certa tradizione, ma la giovane, vivace Blue Elan che ospita, nel suo catalogo, artisti di natura varia ed eventuale. C'è, poi, l'aspetto personale che, come già e ben più che in passato, ha influito su atmosfere e tematiche qui proposte. La Magness riemerge dalle acque tumultuose di pesanti vicende personali e affettive; questo disco, in tal senso, ripercorre il sentiero profondo già tracciato col precedente Original, che l'ha vista tagliare di netto il cordone ombelicale che la legava al prevalente ruolo di interprete, nascendo a nuova vita come autrice – dunque, interprete di sé stessa - di grande spessore, anche col sostegno efficace e ricorrente del produttore Dave Darling, ancora una volta presente. La rivoluzione stilistica, da ultimo, è un po' la naturale conseguenza di tutto ciò.
Dotata di uno strumento vocale non particolarmente esteso, ma estremamente espressivo e profondo, Janiva Magness gioca, in questo disco, in parte sul groove e in parte sulla riflessiva, intima introspezione. Sull'immagine di copertina, i guantoni da boxe sono significativamente e, forse, non a caso messi alle spalle quasi a simboleggiare la fine della lotta contro le avversità, pur lasciando aleggiare il dubbio che, invece, siano proprio lì nella posizione di chi, combattente, se li porta comunque sempre appresso. Sul viso è accennata la serenità di un sorriso: titolo e copertina rimandano a un ritrovato ottimismo. Così, invero, una parte del disco, a cominciare dalla facile title track. Si gioca più sul groove con la sinuosa, sensuale Real Slow, con Your House Is Burnin' dove, soprattutto grazie ai fiati, appare chiara l'aura di James Brown e con Moth To A Flame, unica occasione nella quale, grazie alla chitarra, si intravede un po' di blues. Ma è sui tempi lenti e riflessivi che la Magness cala tutti i suoi assi: da When You Hold Me, al moderno gospel di Say You Will, attraverso l'acustica, delicata Doorway e Rain Down, fino al magistrale racconto di una crisi in Just Another Lesson e alla conclusiva, solenne Who Will Come For Me. E lungo il tragitto c'è spazio anche per una eccellente incursione nel songbook di John Fogerty con la cover di Long As I Can See The Light.   
La Magness dice: “La voce è ciò che ci permette di comunicare ben oltre le limitazioni dell'emisfero sinistro; è lo strumento primario, principale e anche ben più di questo. La voce ha il potere di armonizzare le varie parti di noi stessi: il cervello, il cuore, lo spirito e l'anima. Ecco perchè la capacità di cantare è un dono.”. Vero che blues e soul, accademicamente intesi, di questo disco sono, sì, soltanto lontani parenti; ma le doti interpretative e cantautorali della Magness hanno qui raggiunto una piena, compiuta fioritura. Il dono, fa tutto il resto. G.R.


BIG JON ATKINSON & BOB CORRITORE

"House party at Big Jon's"

Delta Groove Rec. (Usa) - 2016

Goin' back to Tennessee/Here comes my baby/It wasn't easy/She's my crazy little baby/At the meeting/Mojo hand/Mojo in my bread/Mad about it/Empty bedroom/I'm gonna miss you like the devil/You want me to trust you/Mississippi plow/El centro/I'm a king bee/Somebody done changed the lock on my door/My feelings won't be hurt


Una schietta, fiera aria da juke joint permea l'intero disco del giovane e gigante Big Jon Atkinson. Giovane ma ferratissimo in materia, rievoca, del blues, gli antichi fasti, supportato da un piccolo combo nel quale spicca la presenza dell'armonicista Bob Corritore, cointestatario del disco e ciliegina su ogni torta dal gusto tradizionale di recente produzione.
Partiamo dal titolo che già spiega qualcosa. Questo disco si chiama come si chiama perchè a casa sua, Big Jon che, di mestiere, restaura e commercializza strumenti e amplificatori antichi, c'è uno studio di registrazione casalingo da lui allestito, nel quale, di tanto in tanto, si consumano jam sessions o, appunto, house parties proprio come quella che ha dato luce alle tracce incise qui. Atkinson, malgrado la ben giovane età (meno di trent'anni), è un appassionato del blues vecchia maniera che, con impressionante competenza, data sempre l'età, ben interpreta con la sua chitarra. Da qui e dagli strumenti utilizzati, deriva il suono vintage che permea in profondità l'intero disco. Altro aspetto sorprendente è l'età media dei musicisti coinvolti, età che Atkinson abbassa drasticamente entrando in partita a piedi giunti, ma che, al netto della sua presenza, si assesta inesorabilmente sui settant'anni. Molti, infatti sono gli ospiti presenti, due dei quali, Willie Buck e Tomcat Courtney ultra ottantenni. Completano la squadra Alabama Mike e Dave Riley.
Come detto, il suono è saturo e vintage; parliamo di atmosfere che richiamano la Chicago anni '40 e '50 e i relativi Muddy Waters, Sonny Boy Williamson II, Little Walter e – toh – ci metto pure “Booba” Barnes da Longwood, Mississippi. Insomma, c'è spazio per tutti quei grandi e meno grandi che rivivono sorridenti nel cuore e nel sound ricreato in questo allegro house party. La band di base si incentra sulla formazione a doppia chitarra, armonica, basso e batteria; attorno a questa e a Big Jon Atkinson, cantante oltre che chitarrista, si alternano, prevalentemente alla voce, tutti i già citati ospiti. La playlist è lunga e comprende tanto brani originali quanto vecchie, oscure cover (ad accezione delle note Mojo Hand di Lightinin' Hopkins e King Bee di Slim Harpo).
Questo disco che, per la medesima etichetta, fa il paio con la pure recente uscita di John Long, rappresenta un piccolo cambio di rotta per la Delta Groove che, in un mondo con troppi dischi costruiti in laboratorio, esce con una serie di proposte controcorrente, inequivocabilmente intitolata “Uncompromising blues, no apologize”, col compito di riproporre all'ascoltatore il blues suonato alla maniera di quando ce ne siamo probabilmente innamorati. Dunque, vecchio sound pienamente riesumato dove gli amanti del blues di “vecchia scuola” troveranno certo di che bearsi felici. G.R.  


GREGG MARTINEZ

"Soul of the bayou"

Louisiana Red Hot Rec. (Usa) - 2016


Who's loving you/I can't stand the rain/Remember you used to love me/I wish I'd never loved you at all/That old wind/Kiss tomorrow goodbye/If you want me to stay/If I had any pride left at all/Mac daddy/You've got to hurt before you heal

Con Soul Of The Bayou, Gregg Martinez realizza probabilmente il suo disco più compiuto e focalizzato. Prossimo degno candidato a essere inserito nel novero di tutte quelle voci maschili poste comodamente sull'intersezione tra soul e R&B, mostra qui tutta la sua versatilità di cantante e interprete. Tenore sinuoso e lucente, dall'ampio vibrato e dal melisma audace ed elegante, sa dare la giusta compattezza espressiva a una raccolta di brani che spaziano tra ballate e più facili, ritmati riempipista.
Per gli amanti delle definizioni Martinez è ritenuto essere esponente di ciò che viene chiamato Louisiana swamp pop, genere indigeno che trova dimora tra Louisiana e Texas, tra il New Orleans Rhythm & Blues, il country e le influenze francesi. In quest'ultimo disco, affronta un repertorio che si muove tra ben scelte cover e brani originali. Tra le prime, cominciamo subito con la celeberrima I Can't Stand The Rain, resa veracemente swampy dall'incisiva introduzione di chitarra slide per poi svaporare, grazie ai fiati, tra i ricordi di casa Stax più che a quelli della Hi, originaria casa discografica del brano interpretato, ai tempi, dalla voce di Ann Peebles. Per restare in ambito di cover danzerecce, troviamo la funkeggiante If You Want Me To Stay di Sly Stone, la divertente Mac Daddy o il doo-wop vecchio stile di Who's Loving You dove la voce di Martinez si spinge, con equilibrio e mestiere, fin sugli impervi sentieri del falsetto. Ma è quando il ritmo rallenta che il maturo, empatico crooning di Gregg Martinez trova la propria dimensione più convincente e autentica. E allora, I Wish I'd Never Loved You At All, originariamente incisa dal neorleansiano Johnny Adams, If I Had Any Pride Left At All e You've Got To Hurt Before You Heal vengono restituite tutte quante con empatia da una voce che possiede la rara capacità di far credere all'ascoltatore di essere lui stesso il protagonista della storia di volta in volta cantata. A impreziosire ulteriormente il disco, c'è spazio anche per il gigante della chitarra Sonny Landreth ospite nella più rockeggiante That Old Wind. G.R.


 
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