Dischi 6 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

MIKE SPONZA

with Ian Siegal feat. Dana Gillespie

"Ergo sum"

Epops Music Rec. (USA) - 2016

Modus in rebus/Carpe diem/Penelope/The thin line/See how the man/Poor boy/Kiss me/Prisoner of jealousy

Nel corso degli anni, il blues italiano ci ha occasionalmente offerto qualche più o meno riuscito “esperimento”. Tra tutti, e a puro titolo di esempio, mi piace ricordare il blues cantato in italiano, prima con Fabio Treves, poi con Rudy Rotta, giusto per citarne un paio, e senza entrare nel merito. Col suo ultimo Ergo Sum, disco ben lontano dal poter essere trattato alla stregua di un semplice esperimento, Mike Sponza si spinge anche oltre, partendo – sorpresa...sorpresa! - addirittura dai classici latini, come già il titolo manifestamente dichiara. Per quale motivo scomodare si tanta cultura e tradizione consolidate, ce lo spiega direttamente Sponza nelle note di copertina, con una formula precisa e azzeccata: human passions have no age! Davvero valori, principi, paure e sentimenti non hanno barriere spazio-temporali tanto da scoprire che c’è un sottile filo conduttore che unisce le liriche riflessioni e gli argomenti presenti in Catullo, Orazio, Marziale con quelli che ritroviamo nei blues di Muddy Water, Willie Dixon o Lightnin’ Hopkins? La risposta che qui dà Sponza è un sonoro sì! Cambiano lingua, metrica e forma, ma ciò che è universale, resta. Non sono certo aspetti secondari, questi tre, tanto da aver innegabilmente imposto un intenso e anche faticoso lavoro di cesello sui testi, nonché la scelta del giusto mood per ogni singolo brano; ma la sfida è stata pienamente raccolta è altrettanto pienamente vinta.
L’ascolto di questo disco, infatti, restituisce un immediato, raro senso di riuscita completezza. Tutto, qui, fila liscio come l’olio: testi, arrangiamenti, interpretazione, suono. Dall’accurata scelta e riscrittura dei primi, opera di Sponza stesso, all’attenzione meticolosa prestata ai secondi. Dall’interpretazione, talvolta affidata a due artisti inglesi, poco noti ma di assoluto spessore, come Ian Siegal e Dana Gillespie, al suono finale delle registrazioni, effettuate a Londra nei leggendari Abbey Road Studios, gli stessi di Beatles, Pink Floyd, Deep Purple, Police e di molti altri ancora. In questo Ergo Sum, non solo le passioni umane rivivono, ma davvero anche tutta la grazia, l’arguzia e la concreta filosofia dei bluesmen. Così, dalla lenta Penelope allo splendido funky di See How The Man, al più tradizionale shuffle di Poor Boy fino all’invitante Kiss Me, Sponza condivide le parti cantate con la voce ghiaiosa di Ian Siegal che impreziosisce alcuni brani anche con parsimoniosi, ma incisivi interventi di slide guitar. A narrarci, poi, della sottile linea che separa odio e amore, agonia ed estasi – Catullo docet – è la maestosa Dana Gillespie che, sconfinando trionfante verso più soffuse, raffinate atmosfere jazzistiche e su un flessuoso tappeto di fiati, illumina The Thin Line, l’unico brano a lei affidato, forse anche il più affascinante del disco, con un’interpretazione dall’insinuante, seducente sensualità. Ancora da Catullo e con un occhio rivolto a Memphis e l’altro alla Stax, conclude l’opera la ballata soul Prisoner Of Jelousy.
Ad ascolto concluso, ci è chiaro che Sponza ha visto giusto e che Ergo Sum va annoverato tra i migliori e più singolari dischi tra quelli concepiti da chi vede il blues osservandolo da questa parte dell’oceano. G.R.


HARPER AND MIDWEST KIND

"Show your love"

Blueharp Rec. (Usa) - 2016

Hell yeah/What's goin' down/Show your love/Drive brother, drive/I can't stand this/It's all in the game/It's time to go/We are in control/Let's move/Hey what you say/I look at life


Peter D. Harper, in arte, semplicemente Harper (nomen omen, considerato il suo essere anche armonicista) è una sintesi vivente di interessanti mescolanze, geografiche e musicali. Nasce inglese, cresce in Australia e, attualmente, vive negli States. Non in un posto qualsiasi, ma proprio in quel cosiddetto Midwest celebrato, direi non a caso, nel nome del gruppo. Per essere ancora più precisi, vive nel Michigan stato che, ci racconta la letteratura in materia, ricaverebbe il proprio nome dall'omonimo lago, che, a sua volta, parrebbe derivare il proprio nome dalla parola “meicigama” che, tratta dall'antica lingua degli Ojibway, nativi americani, starebbe a significare “grande acqua”. Perché questa iniziale digressione? Perché Harper ha qualcosa che lo accomuna proprio con le popolazioni native, indigene: vuoi nell'aspetto esteriore, un po’ selvaggio, vuoi per un certo approccio mistico alla vita che trova, poi, puntuale riscontro nei testi, vuoi per l'originale idea di introdurre nella sua musica alcune percussioni etniche e, ancorché in modica, misurata quantità, l'uso del didgeridoo, antico strumento derivante, appunto, dagli indigeni australiani. Per gli amanti delle etichette, dunque, potremmo riassumere la mescola musicale di Harper & the Midwest Kind, fondamentalmente come roots rock con intrecci di blues, funk, soul e world music.
Copertina e titolo già evidenziano l'approccio, per così dire, “spirituale” e l'invito alla fratellanza insito in molti dei brani qui inclusi, tutti firmati da Harper stesso. Alcune delle cose proposte in questo disco rievocano lievemente l’immagine del miglior John Popper e dei suoi Blues Travellers. Del resto Harper, come Popper, nasce armonicista e dell'armonica è pure un virtuoso interprete. La prima, concisa, elettrificata dimostrazione la offre in What's Going Down per poi proseguire, con un saggio di armonica acustica, nell'acustica, appunto, Drive Brother Drive. Harper è anche un buon, sebbene non fenomenale, cantante e, da questo punto di vista offre le sue più robuste, profonde, interpretazioni vocali nella lenta I Can't Stand, originale blues minore per band, voce e armonica o nell'ipnotica, primordiale It's All In The Game, tutta groove e didgeridoo. Conclude, questo interessante disco, sesto episodio della discografia harperiana, I Look At Life, ballata dal sapore esistenziale, lucido sguardo di un vecchio saggio sulla vita e i suoi ondosi andazzi. G.R.


ISAIAH B. BRUNT

"A moment in time"

I Brunt Rec. (Usa) - 2016

Still waiting/Singing the blues/That place on the road/Lost jacket blues/May I dance with you/Travel back in time/Party late at night/Same old road/A moment in time


Il suono e la tradizione di New Orleans riappaiono qui, rivisti attraverso un’originale lettura di Isaiah B. Brunt. Natali neo zelandesi, cresciuto in Australia, Brunt vanta un ventaglio di esperienze musicali davvero variopinte, almeno quanto le sue origini geografiche: ha lavorato con Randy Jackson, Keanu Reeves (sì, proprio lui…l’attore e anche musicista!!) e – udite…udite… - Julio Iglesias! Ma fondamentalmente ha un cuore che batte a ritmo di blues su e giù per Bourbon Street, come evidente dalle sue incisioni e dalla recente partecipazione all’International Blues Challenge. Chitarrista anche in versione lap-steel, cantante e autore, per A Moment In Time ha chiamato a raccolta alcuni tra i migliori musicisti della Crescent City: il leggendario bassista George Porter, il batterista Doug Belote che ricordiamo già in forze con un altro originale artista concittadino, Mem Shannon, e Mike Lemmler, piano e Hammond. Come ogni buon disco neorleansiano, completa il quadro di base una robusta sezione fiati guidata e arrangiata da quel Jeffrey T. Watkins, già direttore musicale della band di James Brown. Chiaro ora come Brunt, malgrado le origini, abbia trovato terra ferma e accoglienza nella fascinosa Big Easy. In questo A Moment In Time coabitano affiancati, con curioso contrasto cromatico, la tipica vivacità del sound di New Orleans con la pacata, pigra andatura della voce di Brunt. Il suo canto calmo, dal timbro rasserenante, fraterno ci accompagna lungo nove brani originali che, partendo dall’iniziale e schiettamente neorleansiana e un po’ alla Fats Domino Still Waiting, attraverso l’ironica Lost Jacket Blues e lo shuffle di Party Late All Night molto concedono alle atmosfere più gioiose, da ‘street parade’ tipiche della città, mentre gli aspetti più tenebrosi e magici emergono, evocati dalle note sinistre dell’armonica di Smoky Greenwell, tra le pieghe di That Place On The Road. Ci sono poi alcuni episodi più intimisti come la fantasiosa, visionaria Travel Back In Time che, coerente col titolo, grazie al sapiente impiego dello splendido clarinetto di James Evans e del sousaphone di Tuba Steve, omaggia musicalmente la New Orleans di inizio ‘900 e, ancora, la conclusiva A Moment In Time, riflessiva ballata magistralmente immalinconita dal flicorno di Ian E. Smith, dal mellotron di David Stocker e dalla splendida voce di Sarah E. Burke. G.R.  


LITTLE MIKE

"How long"

Elrob Rec. (Usa) - 2016


Cotton mouth/How long/Smokin'/When my baby left/Slam hammer/Whatcha gonna do?/Sam's blues/Bad boy/Not what mama planned/Tryna' to find my baby/Sittin' here baby

Si annusa uno schietto, diffuso odore di tradizione, misto a qualche lieve, timida virata stilistica verso i territori del jazz e del rock, in quest'ultimo lavoro di Little Mike; al secolo, Mike Markowitz da Queens, New York. Questo nuovo album solista, lontano dai suoi Tornadoes, è il riflesso perfetto di quanto Little Mike ama suonare di più: il blues elettrico della Chicago postbellica, principalmente, con quello stile genuino, da classe operaia, da blue-collar worker con addosso la tuta da lavoro, puntualmente benedetta dalla santa macchia d’un vino onesto e sincero.
La indossa da una vita quella tuta, da quando si è trovato impegnato ad accompagnare, con la sua band, grandi artisti del passato come Big Mama Thornton, Jimmy Rogers, Hubert Sumlin. Little Mike, lo sappiamo, è valente armonicista e cantante, ma qui lo ritroviamo anche impegnato nella veste, forse meno nota ai più, di ottimo pianista dallo stile tradizionale, evocante i grandi luminari dello strumento: Otis Spann, Pinetop Perkins e Henry Grey. Quest’ultimo How Long? si muove, con equilibrio, tra cover e brani originali. Tra le prime, spiccano sicuramente il J.B. Lenoir di quel How Long? che dà titolo all’album e, soprattutto, il tributo a Eddie “Playboy” Taylor con la rilettura della sua celebre Bad Boy. Tra le seconde, l’implicito, strumentale omaggio a James Cotton con l’iniziale Cotton Mouth, l’up-tempo di Smokin’, ironico elenco dei danni da fumo e confessione della propria incapacità di smettere col vizio e quella Tryna’ Find My Baby che, vista  da vicino, ricorda When I Lost My Baby di Ivory Joe Hunter. Ma ben più che gli episodi tradizionali, con riferimento alle virate stilistiche citate inizialmente, ci colpiscono la rockeggiante Whatcha’ Gonna Do? e l’originale Not What Mama Planned, universale, agrodolce riflessione sui progetti di mammà, puntualmente disattesi; si accenna, poi, a incursioni nei territori del jazz con la celeberrima Smokin’ di Bobby Timmons. Conclude l’album l’intimista, crepuscolare Sittin’ Here Baby, sommesso lamento sussurrato su un lieve tappeto di basso, chitarra e spazzole. E, lungo il disco, fa piacere ascoltare, qua e la, l’incisiva, tagliente chitarra di John Edelmann. G.R.


 
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