Dischi 7 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

FABRIZIO POGGI


"Texas blues voices"

Appaloosa Rec. (I) - 2016

Nobody's fault but mine/Walk on/Forty days and forty nights/Rough edges/Mississippi, my home/Neighbor neighbor/Many in body/Welcome home/Wishin' well/Run on


Ci si potrebbe anche arrestare all’iniziale Nobody’s Fault But Mine e alla giubilante, passionale, melismatica lettura che, di questo classico di Blind Willie Johnson, ci restituisce Carolyn Wonderland per capire che questo disco è, probabilmente, un capolavoro; anzi, il capolavoro di Fabrizio Poggi. Si ascolta questo brano e, giunti alla fine, si ha come la sensazione che la Wonderland ci sbatta in faccia un fiero “that’s it!”. E tu prova ad aggiungere altro se ti riesce! Ciò che viene dopo, stile a parte, si erge trionfante sull’alta vetta delineata già limpidamente da questo episodio iniziale. Stile a parte perché, in questo disco c’è, sì, tanto blues, ma aleggia anche chiaro e ben definito uno spirito sanctified che si rivela, a partire proprio dalla prima traccia e si estende per una buona metà del disco.
Per questo Texas Blues Voices, che è il ventesimo capitolo della sua avventura discografica, Poggi ha chiamato a raccolta un nutrito numero di compartecipanti, selezionato una bella manciata di brani e messo in piedi una band solida e compatta, formata in parte da amici di lunga data come il bassista Donny Price e il chitarrista Joe Forlini, completati dal tastierista Cole El-Saleh, membro della band di Carolyn Wonderland e dal leggendario batterista Dony Wynn. Su questa formazione base, si aggiungono, di volta in volta, i vari ospiti. Oltre alla già citata Wonderland compaiono, nell’ordine: Ruthie Foster, interprete di una gioiosa e corale Walk On di Brownie McGhee, il ruvido, profondo Mike Zito cui è affidato il classico di Muddy Waters Forty Days And Forty Nights, W.C. Clark, 'the godfather of Austin blues', che reinterpreta la sua Rough Edges fino all’ultraottantenne miss Lavelle White e all’amarognola nostalgia della sua Mississippi, My Home e a Bobby Mack, cui è affidato l’ossessivo bozzetto dipinto da Jimmy Huges in Neighbor Neighbor. Concludono il quadro la voce di Mike Cross, impasto di chiesa e polverosi crocicchi, un’angelica Shelley King fino al perfetto compimento offerto da quell’enorme talento che è Guy Forsyth e dalla sua interpretazione acustica del classico spiritual Run On.
E Fabrizio Poggi? Lui, questa volta, si è messo un po’ da parte comparendo solo in qualità di armonicista, prestando dunque il suo strumento alla buona causa della celebrazione di uno Stato che tanto ha dato a lui e alla storia del blues. Anzi, come dice Poggi stesso nell’intervista concessa a Macallè Blues, questo disco vuole essere il gesto di un innamorato nei confronti di questa terra. E lui, tramite materiale di quest’atto d’amore, seppur celato tra le ance delle sue inseparabili armoniche è, invero, soffio vitale, motivo conduttore e autentico traino dell’intero disco. G.R.


DOUG MACLEOD

"Live in Europe"

Under The Radar Rec. (Usa) - 2016

I want you/Bad magic/Ain't the blues evil/The new Panama ltd./Home cookin'/Cold rain/Long time road/Turkey leg woman/Masters plan




Un vero marinaio non prega per il vento buono: impara a navigare! Nella quotidianità, capita di trovarsi in ambasce o anche solo nel bel mezzo di piccoli imprevisti, situazioni sufficientemente spiacevoli da trasformarsi in indesiderati ostacoli posti sulla linea del nostro più o meno tranquillo tran tran. La sera in cui, nel 2006 durante un tour europeo, fu registrato questo live, Doug MacLeod era un marinaio colto, poco prima, da un improvviso vento di Libeccio e si trovava a dover attraversare acque divenute mosse. Quella sera, Doug MacLeod, non stava in buona salute; era febbricitante, indebolito e parzialmente rauco. Affrontò ugualmente il pubblico ma, quando gli proposero di pubblicare le registrazioni fatte in quell’occasione, fu inizialmente e fermamente contrario. E’ allora merito dell’olandese Jan Mittendorp, a quel tempo suo manager europeo se, dopo un secondo ascolto, Doug si convinse della bontà e del valore di quelle registrazioni, tanto da acconsentire alla loro pubblicazione e far sì che oggi ce le possiamo ritrovare in mano in forma ascoltabile.
Che MacLeod, da esperto lupo di mare, sapesse navigare in ogni condizione, lo si poteva immaginare, ma questo Live In Europe, ne è la dimostrazione tangibile. Quella sera, malgrado le difficoltà imposte dalla sua condizione, affrontò il pubblico intervenuto per ascoltarlo; esperienza, volontà e passione raddrizzarono, poi, la rotta tenendo saldo il timone. E dunque, oltre a Jan Mittendorp, dobbiamo ringraziare anche l’etichetta Under The Radar se, per la prima volta su disco, abbiamo la possibilità di ascoltare Doug MacLeod nello stesso modo in cui si può ascoltare ai suoi concerti. Ciò a dire, nella situazione più autentica e, forse, a lui più congeniale: in piena solitudine. Già, perché della sua corposa discografia, se escludiamo l’album inciso in compagnia di John “Juke” Logan, peraltro pubblicato a nome di quest’ultimo, questo è il suo primo disco live.
MacLeod è, da sempre, ottimo autore e sagace raconteur. Qui lo troviamo sul palco di un imprecisato locale a Wapen van Oudeschans, città olandese della quale Doug confessa, nell’introduzione a Bad Magic e con l’abituale ironia, di non saperne neppure pronunciare il nome. I brani scelti sono tratti interamente dal suo repertorio autografo, ad eccezione di una versione del classico di Bukka White Panama Ltd, appartenente alla famiglia dei dilatati talking blues che qui, riveduto e corretto, diventa The New Panama Ltd. Con il solo accompagnamento di Spook, la sua fidata National e il battito del piede, MacLeod ha saputo nuovamente trasformare una semplice esibizione in un happening dove affabulazione, arte chitarristica, racconto e maestria si mescolano lasciando emergere, con feeling ed energia intatti, l’uomo e i suoi blues. G.R.


ANNIKA CHAMBERS

"Wild & free"

Under The Radar Rec. (Usa) - 2016

Raggedy and dirty/City in the sky/Better things to do/Give up myself/Six nights and a day/Put the sugar to bed/Reality/Don't try and stop the rain/Why me/I prefer you/Piece by piece/Love God



Ha, indubbiamente, il cuore che batte per le grandi interpreti blues e soul del passato, Annika Chambers, ma percorre la medesima strada di più note, contemporanee colleghe come Shemekia Copeland, per esempio. E con la medesima grinta, determinazione e fiera consapevolezza che la portano ad essere interprete muscolare, ma non priva di raffinate inflessioni e inattese, quanto profonde, aperture intimiste.
Texana di Houston, allevata, come tante, nella protettiva e nutriente culla del gospel, incontra il blues quasi per caso, dopo aver imbracciato il fucile come militare operativo, sia in Kosovo che in Iraq. Dunque, strano destino il suo: scoperta come cantante durante la permanenza nell’esercito, rientrata in patria, una volta terminate le missioni all’estero, si dedica a tempo pieno alla musica e, nel 2012, partecipa all’International Blues Challenge dove viene notata da Larry Fulcher della Phantom Blues Band, lì presente in qualità di giudice. Con l’aiuto di Fulcher realizzerà un demo sulla base del quale prenderà forma il suo disco d’esordio, Making My Mark. Correva l’anno 2014. Wild & Free rappresenta la sua seconda prova discografica, sempre prodotta da Fulcher che, per l’occasione arruola l’intera Phantom Blues Band al netto dei fiati, aggiungendo al mix, il fine tastierista Mike Finnigan e, come ospite, quello straordinario pianista che è Jon Cleary.
Strumento carnoso e lucente, ben esteso e con improvvise discese in registri più scuri, incarna echi lontani di Aretha Franklin, occasionali pigli felini alla maniera della sua conterranea Trudy Lynn, così come sacre inflessioni alla Mavis Staples. Il retaggio gospel è qui ben chiaro ed evidente nella conclusiva, corale Love God, ma emerge pure tra le pieghe di altri episodi come l’autobiografica Why Me dove le crespe brune del suo canto trovano un contraltare nella risposta ora della chitarra, ora dell’organo e del coro, entrambi di netta derivazione churchy. Nell’intero disco c’è spazio solo per due brani autografi, proprio quest’ultimo Why Me e Reality, ma il repertorio restante, pur fatto di cover, è ben scelto e tale da mettere in ottima luce le prorompenti doti vocali della Chambers. Il primo terzo dell’opera, che si apre, pur egregiamente, con Raggedy And Dirty di Luther Allison concede molto alla facile presa del ritmo, ma il meglio comincia dopo, dalla sensuale e groovy Six Night And A Day e dall’originale ballata Reality, intensa, partecipata e coi numeri per diventare un potenziale hit. I Prefer You volge apertamente lo sguardo verso la vecchia regina Aretha, mentre la delicata, introspettiva Piece By Piece di Katie Melua acquista, qui, una lirica carnalità assente nella più evanescente e crepuscolare versione originale.
Questo è soltanto il suo secondo disco e, anche se pur qualcosa concede al pop, in quanto a timbro, modulazione e capacità di dar voce a un ampio spettro di emozioni, Annika Chambers è già matura quanto basta per tentare il colpaccio. Con la giusta rosa di canzoni, scommettendo anche sulla sua capacità, qui ancora poco esplorata ma già rimarchevole, di autrice. G.R.  


DONALD RAY JOHNSON & GAS BLUES BAND

"Bluesin' around"

Mar Vista Rec. (Usa) - 2016


Bad luck/Bluesifyin'/Ain't superstitious/Ninety proof/She's french/Big rear window/Distant/She's dressing trashy/Watching you/Should've been gone/You're the one for me


I riflessi schiettamente nasali, le ondosità morbide e sabbiose del canto di Donald Ray Johnson e il suo vibrato largo e ben modulato si ritrovano tutti nella felice amalgama risultante dall’incontro con due episodi tratti dal repertorio del texano Philip Walker che qui, viene ripreso ed efficacemente omaggiato in Big Rear Window e, soprattutto, Ninety Proof. In quest’ultima rivivono, in disarmante, efficace contrasto l’iniziale, millantata, vanagloriosa rivalsa verso l’abbandono amoroso (…I just called you baby to tell I’m gonna be alright/since you went away, my future’s looking so bright….) e un epilogo di rassegnata, fragile ammissione di resa di fronte all’evidente sconfitta (…you’ve been replaced baby, I don’t need you no more at all/I’ve got a new love right here beside me and her name is Alchool…). Nella rilettura di questo brano trovano ampia centralità la fantasiosa chitarra di Gaspard “Gas” Ossikian e la tromba di Nicolas Gardel che, qui, sottolinea con un lamento a tratti strozzato e implorante la tormentata, drammatica confessione finale.

La rivisitazione, tanto strumentale quanto cantata, un po’ infiacchita e svogliata, di Bluesifyin’, invece, estratta dal songbook del Joe Louis Walker anni ’90 perde, qui, parte della sua peculiarità: quell’aguzza, sferragliante e intensa slide presente nella versione originale, che sottolineava il compiaciuto, autocelebrativo racconto del testo. Il resto del programma si destreggia agilmente tra le luci di Beale Street dove la chitarra rievoca, spesso e apertamente, il sommo B.B. King o indulge in virate funky, frutto originale della penna di Johnson stesso, Janice Marie Johnson o Nat Dove.
Un tempo batterista per Lowell Fulson, Bobby Womack, Percy Mayfield, Teddy Pendergrass, protagonista, poi, di una parentesi disco con Taste Of Honey, Donald Ray Johnson è oggi solo più corpulento vocalist dalla tonalità lievemente acidula. Texano d’origine e canadese d’adozione, Johnson ha trovato, come molti altri artisti prima di lui, per questa sua quinta prova solista, buon supporto nella vecchia Europa e nella Gas Blues Band, quartetto francese formatosi cinque anni or sono e che in questo breve lasso di tempo ha saputo creare attorno al proprio nome, una solida reputazione. Per l’occasione, il quartetto base è, qui, sapientemente arricchito da una giusta, opportuna dose di fiati. G.R.


 
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