Dischi 9 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

DERRICK PROCELL


"Why I choose to sing the blues"

Here And Now Rec. (Usa) - 2016

The Wolf will howl again (feat. Eddie Shaw)/Trouble me no more/The eyes of Mississippi (feat. Bob Margolin)/Why I choose to sing the blues/They all find out/Broke the mold/Ain't nuthin' more about it, sorry/Who will tell Lucille/Back in the game (feat. Billy Branch)/Don't waste a wish on me/Too much (bonus track)


La magmatica, avvolgente pastosità baritonale di Eddie Shaw, storico sassofonista e bandleader del Lupo Ululante di Chicago dilata, come in un’immaginaria caduta nella melassa dello spazio-tempo, il perimetro dell’iniziale The Wolf Will Howl Again, duettando col granuloso e sorprendentemente soulful strumento vocale di Derrick Procell.
Tutto fuorché artista esordiente o, meno che mai, musicista della domenica, in questo suo debutto nel genere Procell ci spiega, con chiara eloquenza, ‘perché ha scelto di cantare il blues’: “...since it hit me, it’s been with me/it’s something you can’t lose/it can’t escape me this thing that shape me/it’s why I choose to sing the blues…). E, per farlo, si aggrega al luminoso talento d’autore del già Grammy Award Winner Terry Abrahamson e licenzia un dischetto che costituisce la più piacevole tra le sorprese concesse agli occupanti di questa terra sul finire del 2016.
Due sono, quindi, i protagonisti di questo disco: quello ufficiale, raffigurato sulla copertina, Procell, e quello che, pur con tutto il suo volume di importanza, resta tra le quinte, Abrahamson. Il primo, nel suo personale percorso musicale e pur conservando sempre vivo il primigenio amore per il blues, ha intrapreso strade che, spesso, lo hanno costretto a deviare verso generi adiacenti come rock, country, roots e, da ultimo, a interpretare colonne sonore di jingles o famosi serial TV come Criminal Minds. Il secondo, come detto, è ben noto, immaginifico e stagionato autore di talento le cui canzoni sono state interpretate dai più nobili esponenti del genere; ricordiamo, una su tutte, la sua Bus Driver, presente in Hard Again, anno 1978, disco della definitiva resurrezione di Muddy Waters. Oggi, la grande esperienza di Abrahamson e il talento sfaccettato di Procell si sono felicemente incontrati a un ben preciso crocicchio, dando vita a quello che è, di quest’ultimo, il primo disco interamente blues.
Qui, in realtà, le forme stilistiche vengono spesso costrette ben oltre il banale confine delle dodici battute. In Trouble Me No More, per esempio, ci si sposta qualche miglio più a sud, proprio là, dove Gregg Allman e la sua band esercitavano, con indiscussa autorità, il loro sommo magistero. Spingendosi ancora oltre, nella medesima direzione, si arriva alla successiva The Eyes Of Mississippi con l’evocativa, paludosa slide di Bob Margolin a sottolineare i più reconditi misteri di due occhi vigili da country boy, risaliti oltre la Mason Dixon Line, che “...there ain’t nothing they don’t tell...”. Come richiamato dalla fune elastica in un bungee jumping, con le successive, Why I Choose To Sing The Blues e Broke The Mold si torna rapidi verso le terre battute dagli Allman e, tra l’arguto shuffle di They All Find Out e la cinica Sorry?, si arriva dritti a Who Will Tell Lucille, commovente omaggio alla chitarra di B.B. King, qui umanizzata, come già fu nel nome di battesimo attribuitole, e assurta al ruolo di regina inconsolabile dopo la morte del suo Re. Qui, anche la chitarra di Alex Smith, di King mantiene, come in un estremo, ultimo omaggio, il chiaro feel. L’armonica di Billy Branch illumina Back In The Game, uno dei tre brani scritti da Procell così come il conclusivo Too Much ripescato, nella macchina del tempo, direttamente dal suo repretorio anni ‘90. Ma prima del finale, ancora una sopresa ci viene offerta dal duo Abrahamson-Procell: Don’t Wast A Wish On Me dove un testo sardonico, che invita a non giocarsi desideri sull’uomo sbagliato, si abbina sagacemente a un piano che ben ricorda un Randy Newman nel suo aggirarsi guardingo dalle parti di New Orleans.
Oltre che cantante dal timbro mordace, molto debitore al già citato Gregg Allman e un po’ a Delbert McClinton, Procell è ottimo polistrumentista comparendo anche in veste di pianista, armonicista e bassista.
Lo spirito di Howlin’ Wolf non è stato evocato invano: il Lupo, chiamato, si è presentato puntuale. Ed è, di certo, ancora lì che ascolta; con simpatia! G.R.


RANDY McALLISTER

"Fistful of gumption"

Reaction Rec. (Usa) - 2016

C'mon brothers and sisters/Time for the sun to rise/Ride to get right (tribute to Otis Redding and Earl King)/Roll with the flow/My stride/Background singer/The oppressor/Leave a few wrong notes/Band with the beautiful bus/East Texas scrapper




Possiede la rara, sorprendente bellezza di un diamante grezzo; il luccichio della pietra autentica filtrata attraverso una patina granosa di argilla e fango. Questo è McAllister. E, come lui, la sua opera rimanda alle medesime qualità qui, come forse mai prima, ben formate dalla mano abile ed esperta del vasaio.
Questo East Texas bluesman, come lui ama definirsi, è autore prolifico e talentuoso, polistrumentista giunto ora alla tredicesima prova discografica, ben matura e feconda di idee. Pur non essendolo in modo formalmente compiuto, si è sempre distinto per essere animato dallo spirito del one-man-band. Batterista secco e preciso, armonicista essenziale ed efficace oltre che washboardista ha sempre mostrato una grande devozione per il vigore del blues texano al quale, fin dagli esordi, ha abbinato la sua acuta penna d’autore.
Registrato in compagnia della sua attuale band, con ironia e ragione battezzata The Scrappiest Band In The Motherland, Fistful Of Gumption riprende, in parte, le atmosfere dei suoi dischi più recenti ma, da questo punto, si spinge un po’ al largo giungendo a nuovi approdi. La presenza, ormai consolidata, di Maya Van Nuys al violino conferisce un vago sentore country all’intero mix. E il forte braccio di McAllister si regge, per le parti solistiche, proprio sul violino e sulla chitarra acidula e pungente di Rob Dewan.
Le danze cominciano col ritmo brusco e i frequenti cambi di tempo di C’mon Brothers And Sisters che conducono all’unica cover presente, Time For The Sun To Rise. Scritta da Earl King, è qui rivisitata con un peculiare mood surreale, cogitabondo e arricchita proprio da una toccante parte di violino. Sebbene nelle intenzioni e come testimoniato dal sottotitolo voglia essere un tributo a Otis Redding e Earl King, Ride To Get Right è un magistrale gumbo dove violino e chitarra, schiettamente country, ricamano virtuosismi su una trama compiutamente zydeco e un coro finale con ascendenze gospel. Grazie ad altri sapienti cambi di tempo, macina southern rock e gospel a corrente alternata, Background Singer, intelligente metafora esistenziale sui destini di chi è voce in un coro ma, pur inascoltato, lotta per conquistare la propria dimensione "solistica". Gli stessi cambi di tempo che illuminano The Oppressor, uno dei brani più affascinanti, duri e drammatici dell’intero disco, con violino e chitarra a distillare ogni oncia di urgente espressività.
Il Texas più schietto rivive nello shuffle di Band With A Beaufitul Bus, ironico, godibile bozzetto di vita vera da musicista on the road. Mentre la conclusiva East Texas Scrapper potrebbe essere, invece, il peculiare biglietto da visita di questo artista dalla voce aspra come quella di un Bob Seger, ma senza inutili romanticherie da ballate. “...I’m an Est Texas scrapper, shake my hand!” G.R.


MAT WALKLATE & PAOLO FUSCHI

"Kicking up the dust"

Autoprodotto (Uk) - 2016

Ain't no big deal on you/Goin' down slow/As long as I have you/Nothin' but love/Trouble no more/Fat man/Don't you know me/Black cat bone/Oh babe (sick and tired)/Man in the street/Money





Irlanda Italia. Non è il titolo di un match calcistico, ma le nazionalità rispettivamente di Mat Walklate, armonicista cantante e di Paolo Fuschi, chitarrista e, pure, cantante sebbene occasionale. Il duo, di recente formazione, ha avuto i suoi natali e vive la sua esistenza artistica in Inghilterra. In questo senso, Fuschi ne ha fatta di strada considerate le sue origini siciliane. Ennesimo esempio di musicista che, dal nostro patrio suolo, emigra all’estero in un esodo che ingloba cervelli in fuga, non solo più scientifici, ma ormai appartenenti a ogni talentuosa risma. A differenza dei tanti altri che lo hanno preceduto, però, non emigra in America, ma oltremanica, in quella terra che, negli hanni ‘60, ebbe un ruolo fondamentale nel far scoprire il blues agli europei.
In questo Kicking Up The Dust, dunque, Fuschi gioca, in modo egregio ed efficace, il suo ruolo principale di chitarrista ritmico, instancabile creatore di un tappeto sonoro sul quale Mat Walklate affronta i compiti di armonicista (prevalentemente cromatico) e cantante: entrambi si propongono qui in versione amplificata. Il programma del disco comprende quasi esclusivamente cover. Si parte dalla sferzante Ain’t No Big Deal On You e si prosegue con una rilettura insolitamente funkeggiante di Goin’ Down Slow. As Long As I Have You di Willie Dixon assume un andamento drammatico, un aleggiante tono funereo. New Orleans fa capolino con Fat Man e il meddley Oh Babe/Man In The Street e, a metà disco, nell’unico brano originale presente, Don’t You Know Me, il canto dalle tonalità castane e profondamente paterne di Walklate lascia spazio a quello più efebico, acerbo di Fuschi così come l’agile armonica del primo, fa un po’ di posto alla chitarra del secondo che gode qui, di un suo momento di rilievo. G.R.  


THE DOGTOWN BLUES BAND feat. BARBARA MORRISON

"Everyday"

RVL Music Rec. (Usa) - 2016


Everyday I have the blues/Shrimp walk/Easy baby/Boxcar 4468/Doc's boogie/Variation II/Ain't nobody's business/All the way down/Same old blues/County line






Parafrasando Totò, potremmo dire che non è sempre la somma a fare il totale; o, quanto meno, a fare la differenza.
La losangelena Dogtown Blues Band raduna, attorno alla veterana figura del chitarrista Richard Lubovitch, un drappello di davvero valenti musicisti. Ma, nel caso specifico, così come in generale, la pur indubbia e, qui, aggregata bravura dei singoli, è condizione, sì, necessaria ma non sempre sufficiente a sostenere, da sola, l’onere artistico di un’omogeneità d’intenti e di risultati. Nemmeno quando, a dare una mano, interviene, in qualità di cantante ospite, la sempre californiana Barbara Morrison.
Questo Everyday si rivela, quindi, opera perennemente in bilico tra una tradizione, talvolta rivisitata negli arrangiamenti, più marcatamente orchestrali e jazzistici, come nel classico Everyday I Have The Blues, e uno sforzo compositivo che si materializza in una serie di brani strumentali (cinque in totale) più indirizzati a mettere sotto il riflettore le individuali abilità solistiche dei membri della band. In questo senso, spicca di netto il virtuoso armonicista Bill Barrett che, impugnata la cromatica swinga con la testa persa in Toots Thilemans su Variation II. Con la diatonica, invece, illumina Shrimp Walk, strumentale dal feel latino, appoggiandosi al gustoso organo funk di Wayne Peet. Sempre Barrett dà un tocco downhome a un altro strumentale, All The Way Down; mentre, nella rilettura del Doc Pomus di Dog’s Boogie, abbandona l’armonica per darsi al canto e liberare la sua voce di sapido, scattante tenore.
C’è, poi, la veterana Barbara Morrison che, come detto, interviene da ospite nei brani più marcatamente blues del disco. Cantante di estrazione prettamente jazzistica tanto che la sua voce, nella quale si possono apprezzare sottili nasalità alla Esther Philips o timide, disperse asprezze alla Bettye Lavette, meglio si colloca nell’iniziale Everyday I Have The Blues o, meglio ancora, nel classico Ain’t Nobody’s Business che non immersa, come in Easy Baby o Same Old Blues, in, per lei, innaturali atmosfere da Tin Pan Alley che richiamerebbero una presenza vocale ben più torrida e carnale. G.R.
 
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