2020 - Macallè Blues

Macallé Blues
....ask me nothing but about the blues....
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2020

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I dischi in evidenza...2020


I dischi in evidenza: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle più interessanti (a mio personalissimo avviso!) novità discografiche, suddivise per anno di pubblicazione!

SONNY GREEN

"Found! One soul singer"

Little Village Foundation Rec. (USA) - 2020

I'm so tired/If walls could talk/I beg your pardon/Are you sure?/Cupid must be stupid/Blind man/Back for a taste of your love/If you want me to keep loving you/Trouble/I got there/Be ever wonderful

 
    
Il titolo è allusivo quanto basta perché, già solo leggerlo, possa farci sussultare sulla fiducia.
Found! One Soul Singer parrebbe, infatti, la risposta, giunta ad anni luce di distanza, a quell’altro titolo, Wanted: One Soul Singer che, nel lontano 1967, sotto forma di appello e richiamando lo stile degli annunci da giornaletto, dava il nome al primo, seminale disco di quell’abrasivo vocalist che fu Johnnie Taylor.
Nativo della Louisiana ma, da tempo immemore, residente a Los Angeles, Sonny Green, alla veneranda età di settantanove anni, pare aver trovato la sua tardiva ragion d’essere discografica nel rinverdire gli antichi fasti di Bobby Bland, Little Milton e, perché no, dello stesso Taylor. Al netto di alcuni sporadici singoli usciti a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, sorprende che questo sia il suo primo long playing, ma tant’è. Ciò che, invece, sorprende meno è che, a pubblicarlo, sia la Little Village Foundation, etichetta il cui lodevole proposito è proprio quello di ridare luce ad artisti misconosciuti piuttosto che dimenticati. In questo senso, dunque, missione compiuta!
Sebbene l’impronta canora di Green sia fortemente derivativa e debitoria nei confronti, soprattutto, dei già non a caso citati Bland e Milton, le cui reinterpretazioni qui presenti risultano così prossime all’uno quanto all’altro da apparire più come tentativi camaleontici di imitazione che non personali omaggi (a tal proposito, si ascolti già l’iniziale funk I’m So Tired nel quale il tipico, adenoidale growl di Bland pare emergere schietto e trionfante o la successiva If Walls Could Talk, vecchio hit del Milton più virile oppure ancora Blind Man brano che fu denominatore comune del repertorio di entrambi). L’ombra canora di Milton ritorna nella sagace Cupid Must Be Stupid intanto che l’abile penna di Rick Estrin firma lo scoppiettante I Got There come il lento blues orchestrale I Beg Your Pardon. Appena un po’ fuori dalla via maestra del R’n’B di tradizione, si colloca la rilettura del Syl Johnson di Back For A Taste Of Your Love; mentre, sul versante ospiti, oltre a Sax Gordon troviamo Alabama Mike a scambiarsi il microfono con Green sulle note di Trouble, flessuoso funk blues d’atmosfera la cui tagliente, nervosa chitarra rimanda la mente dritta dritta ad Albert Collins.
Come un vero cantante soul di vecchia scuola, Green cavalca fieramente, a dorso di mulo, sentieri downhome. Il suo filosofare da bar ben si sposa con repertorio e stile che, se non fosse per le sonorità che tradiscono tempi certamente moderni, alimenterebbero il sospetto si tratti di un disco d'epoca.
La produzione è affidata al sapiente e, oggigiorno, onnipresente Kid Andersen che, nel mettere a disposizione i propri Greaseland Studios, include nell’offerta anche il collettivo di musicisti che, abitualmente, popolano gli stessi. E allora troviamo Jim Pugh, Chris Burns, oltre lo stesso Andersen; e Mike Rinta a comandare una sezione fiati meravigliosamente intessuta e muscolare.
Sebbene in Be Ever Wonderful, ballata che chiude il lavoro, il nostro Green ravvivi il sospetto che il suo sia più un esercizio imitativo che non l’occasione per trovare una propria identità vocale reinterpretando brani altrui - evidente lo sforzo di doppiare quegli svolazzi da alto tenore che furono tipici di Ted Taylor, autore del brano - in questo disco non ci sono trucchi o espedienti: trattasi di schietto, ben arrangiato e fresco soul blues. G.R.
    
SHEMEKIA COPELAND

"Uncivil war"

Alligator Rec. (USA) - 2020

Clotilda's on fire/Walk until I ride/Uncivil war/Money makes you ugly/Dirty saint/Under my thumb/Apple pie and a 45/Give God the blues/She don't wear pink/No heart at all/In the dark/Love song

   
 
Da un buon decennio, Shemekia Copeland ha marcato un territorio che oggi, con autorità animale e sicura convinzione, rivendica come suo. In questo senso, Uncivil War, cautamente avventuroso dal punto di vista musicale, ma talvolta spregiudicato da quello lirico, nel suo mescolare blues, R&B e Americana in quell’eterogeneo cocktail che, de jure, ha preso il nome della propria interprete, continua a porre attenzione e accento su quei temi sociali e civili che riguardano l’America e l’intero mondo.
Di tutti i suoi album questo è il quinto registrato nella patria del country, Nashville, e il secondo prodotto da Will Kimbrough che già alti onori aveva procurato alla cantante col precedente America’s Child. L’apertura del disco è significativa: quel Clotilda di Clotilda’s On Fire è il nome dell’ultima nave di schiavi che, già quando il commercio degli stessi era stato bandito, dunque illegalmente, nel 1859 attraccava sulle coste americane in Alabama e, a carico consegnato, per occultarne le prove, veniva data alle fiamme dal suo capitano. Il prosieguo, non è da meno in quanto a efficacia lirica e stabilità del baricentro sul sociale: Apple Pie And A 45 affronta l’annoso tema della facile diffusione delle armi tra la popolazione civile mentre Walk Until I Ride, col suo andamento apertamente gospel, rievoca le pagine più sinceramente civili degli Staple Singers e Give God The Blues assume i toni di un sinuoso, ficcante inno all’abolizione delle differenze religiose e politiche.
Non mancano le cover, come il lento blues minore di Junior Parker In The Dark, ideale veicolo per la fiera apertura a tutto spettro dello strumento vocale della Copeland o la conclusiva countrieggiante Love Song, uscita dalla penna del proprio padre, il chitarrista Johnny Copeland. Ma la traccia più sorprendente, oltre a quell’originale neorleansiano che è Dirty Saint, dedicato alla memoria di Dr. John, pare proprio Under My Thumb, vecchio standard dei Rolling Stones qui, con gusto e delizia del palato, riletto al rallenty.    
Anche questo disco, come i precedenti, presenta ospiti diversi e di alto profilo: Steve Cropper, Christone “Kingfish” Ingram, Duane Eddy, Webb Wilder, Phil Madeira. Ognuno capofila nei rispettivi generi ma, tutti uniti con l’intento di confondere le acque e rendere meno netti quei confini stilistici che, diversamente, avrebbero reso l’opera incontaminata. G.R.

JOHNNY IGUANA

"Chicago spectacular!"

Delmark Rec. (USA) - 2020

44 blues/Hammer and tickle/Down in the bottom/You're an old lady/Land of precisely three dances/Lady Day and John Coltrane/Big Easy women/Burning fire/Shake your moneymaker/Motorhome/Stop breakin' down/Hot dog mama

 
   
Camaleontico, talvolta avventuroso, il pianista Johnny Iguana (al secolo Brian Berkowitz), adottivo chicagoano, debutta finalmente nel blues come leader.
Già rinomato sideman con Junior Wells, Otis Rush, Buddy Guy, James Cotton, Billy Branch così come pure pianista in innumerevoli album della storica etichetta Delmark (la stessa che pubblica questa uscita), nonché membro dei The Claudettes, originale gruppo di confine con una forte connotazione pianistica, per questo suo Chicago Spectacular! raduna una lunga lista di luminari del genere che, a turno, gli offrono prezioso supporto per un esordio che, del pianoforte e del Chicago blues, è un’evidente celebrazione.
Del resto, oltre al manifesto talento, altra cosa indiscutibilmente chiara è la quantità di amici e ammiratori sui quali, Johnny Iguana, può contare. Tra i suoi ospiti compaiono, dunque non a caso, John Primer, Bob Margolin, Billy Flynn, Lil’ Ed, Kenny Smith, Mattew Skoller, Billy Boy Arnold; tutti a dar manforte coi rispettivi strumenti e/o al canto. Il che ci fa immaginare quanto l'Iguana in quesione, superdotato pianista, sia probabilmente un ipodotato vocalist. Ma, questa seconda lacuna è ampiamente vicariata dall’abbondanza della prima qualità.
Tra i più celebri e acclamati esponenti dello strumento (Roosevelt Sykes e Otis Spann) dei quali, Johnny Iguana ripropone alcune pagine, troviamo pure Sonny Boy Williamson, Elmore James, Willie Dixon e Big Bill Broonzy come altri ben noti autori blues qui omaggiati, dal cui repertorio, Iguana, pesca serenamente prima di proporre alcuni suoi inediti: la vivace, atipica rhumba Hammer And Tickle, per esempio, od originali boogie woogie come il tonante, irregolare Land Of Precisely Three Dances o ancora la stentorea, irrequieta Motorhome.
Johnny, non è esattamente il tradizionale pianista blues al quale si potrebbe pensare e questi suoi inediti strumentali lo dimostrano. Nel rispettare e onorare la tradizione, cosa evidente dai classici inclusi, non rinuncia a mettere il proprio marchio sulla musica, anche con scelte inattese come conferma, per esempio, la presenza di Lady Day And John Coltrane, vecchio cavallo da guerra di Gil Scott-Heron, qui vocalmente interpretato da Phillip Michael-Scales, nipote di B.B. King.
Quella proposta da Johnny Iguana non è imitazione puro omaggio. Mezzo secolo di grandi pianisti blues sono qui onorati; ma, tra questi onori, Johnny Iguana non rinuncia a far risuonare la propria personale voce, creando un album per pianoforte blues come pochi se ne sentono. Tradizionale, contemporaneo e audace. G.R.

GREGORY PORTER

"All rise"

Blue Note Rec. (USA) - 2020

Concorde/Dad gone thing/Revival song/If love is overrated/Faith in love/Merchants of paradise/Long list of troubles/Mister Holland/Modern day apprentice/Everything you touch is gold/Phenix/Merry go round/Thank you

 
    
Con All Rise, Gregory Porter ci consegna l’estratto più centrato e concentrato di se stesso.
Il crossover di sempre – miscellanea di reminiscenze giovanili, tra country, Motown soul e jazz vocale, assorbite nella natia Sacramento – intriso di quell’ardente e ammodernato gospel battista (Revival, Thank You, You Can Join My Band), sempre respirato prima e cantato, poi, nella chiesa della madre predicatrice, trova in questo suo ultimo lavoro, la propria più estesa e compiuta fioritura.
Sebbene stilisticamente differenti nei toni, queste canzoni restano aggregate dal tema suggerito nel titolo, in quel sorgere (o risorgere?!) di un tutto, che rende il lavoro quasi un concept album, esemplificativo combinato dei ricordi e della filosofia esistenziale dell’artista. Ed è anche un ritorno convinto, per Porter, alle tinte pastello della propria rimarchevole tavolozza d’autore.
Fin dall’iniziale, ariosa Concorde, il disco promette tutte le sorprese che, nel prosieguo, mirabilmente mantiene. E tradisce anche una grande ambizione, manifesta nell’aver osato affiancare la sua regolare band (gli abituali Chip Crawford al piano, Jahmal Nichols al basso, Emanuel Harrold alla batteria e Tivon Pennicott al sax) ad una più corposa sezione fiati, a un ampio coro e, da ultimo, niente meno che alla London Symphony Orchestra. Grazie alla magistrale produzione dell’inglese Troy Miller, nulla qui risulta mai fuori posto o accostato in modo improprio.
L’apertura sinfonica di If Love Is Overrated vira rapidamente, col suo drammatico storytelling, verso ciò che appare essere, invero, una delicata, magistrale canzone d’amore in stile retrò. La ballata soul Everything You Touch Is Gold, nel palesare un crooning garbato assume, via via, le forme di un sussurro serotino dal solo occasionale, passionale crescendo; Dad Gone Thing restituisce echi soul-funk degli Earth Wind & Fire come Long List Of Troubles, suoni degni di una rivisitazione immaginaria e moderna degli antichi Temptations.
Nel registro più alto del suo solare, rilassato baritono dai brillanti chiaroscuri ritroviamo assonanze con Leon Thomas, con l’ultimo Lou Rawls (si ascolti Faith In Love) e Terry Callier (Merchants Of Paradise), come lui artisti frequentanti le vaste pianure di confine del canto nero.
In questo album, che è quello della piena maturità, Gregory Porter ha trasfuso emozioni intense, percettività e una freschezza autentica e inusuale. G.R.

THE LEGENDARY INGRAMETTES

"Take a look in the book"

Virginia Folklife Rec. (USA) - 2020

The family prayer/Take a look in the book/Grandma's hands/When Jesus comes/Rock of ages/I've endured/Time is winding up/Hold to God's unchanging hand/Beulah land - I wanna go there/Until I die

 
  
Take A Look In The Book affronta, con la tipica veemenza da pergamo, declinata interamente al femminile, i temi e le atmosfere tradizionali del gospel. E, del gospel più verace, sanguigno e corale, rappresenta tutto il pieno, giubilante trionfo.
Gli irrequieti, alati e, talvolta, barocchi volteggi di queste tre agili ugole muovono tutti da strumenti vocali mobili e iridescenti, capaci di ruggiti furiosi quanto di narrativi, delicati momenti come quelli che troviamo nel racconto parlato di Beulah Land-I Wanna Go There.
Gruppo di base a Richmond (Virginia) formato, quasi sei decenni fa, dalla cantante, pianista e attivista Maggie Ingram, The Legendary Ingramettes, inizialmente riunite come ensemble di canto famigliare e comunitario, grazie a quel peculiare, passionale e taumaturgico intreccio di voci guidato dell’indomito piglio di Maggie, si trasformò presto in una autentica istituzione sanctified. Oggi, a distanza di cinque anni dalla morte dell’anziana capostipite, guidate da sua figlia Almeta Ingram, e dalla nipote Cheryl Maroney Beaver, The Legendary Ingramettes tornano con un nuovo album - prodotto dal folklorista Jon Lohman, il primo senza l’anziana matriarca! - che sa di gioia ed esuberanza e di tutta l’estatica frenesia del pulpito battista.
Con un accompagnamento minimale, fatto di soli piano, basso e batteria, il trio vocale dispensa energia e vibrante passione senza conceder tregua. Sul filo di un repertorio che pesca tanto da vecchi spirituals quanto dalla tradizione dei monti Appalachi, la voce di Almeta, dall’agile melisma, svettante e modulatorio, dona al canto religioso un suo personale swing, rapito e carnale a un tempo, tanto da apparire come il controcanto sacro alla vocalità grassa e profana di blues singers come Koko Taylor. Quasi si trovasse a capo di un gruppo di cheerleaders celesti, il tormento, dispiegato nella sua voce irradia, di luminosa apoteosi, I’ve Endured, firmato dalla penna di Ola Belle Reed, quanto il maestoso e a cappella Time Is Winding Up e conduce per mano, con la sicurezza di un vero pastore, il proprio gregge cantante, tra i pascoli più verdi e incontaminati del canto sacro nero americano. Anche la celebre Grandma’s Hands, viene strappata al destino di nostalgica, familiare ballata folk-blues affibbiatole dall’autore Bill Withers per essere lentamente trascinata attraverso il portale di questa chiesa, sulle note di una musica che ha il pieno potere di redimere perfino il cuore più duro. G.R.

SEAN ARDOIN

"Came thru pullin'"

Zydekool Rec. (USA) - 2020

Came thru pullin'/Bounce/No that ain't right/Get right girl/I'm not gonna wait/Gumbo time/It's love/Kool rolling/Nothing like our love/Shut them down

 
  
Diretto discendente di quell’Amédé Ardoin e di quell’altro Ardoin, tale Bois Sec, antichi e storici esponenti della musica e della cultura creola e cajun, Sean rappresenta, a un tempo, le profonde, lontane radici della musica zydeco tanto quanto il suo futuro prossimo venturo.
La proposta musicale del giovane Ardoin è una rara combinazione di tradizione, talento e creatività che gli conferisce connotazioni sonore tali da apparire differente, quel tanto che basta, da tutti gli altri artisti del genere. Anzi, con questa veste, sembra quasi essersi tramutato nel pioniere di un autentico nuovo genere, quello da lui battezzato Kreole Rock & Soul, ennesima etichetta (della quale pur non si avvertiva la mancanza!) e già titolo di un suo precedente disco. Attraverso lenti ritagliate a forma di Louisiana, mette a fuoco i confini di una nuova arte che deforma, elasticamente, quelli più tipici e caratteristici dell’idioma zydeco.
Proprio inseguendo il successo di quell’omonimo disco, Sean Ardoin ne ha adottato il titolo per identificare la sua musica. E in questa nuova uscita, ripropone, immaginandole diverse, dieci canzoni tratte dai suoi vent’anni di carriera solista; ma lo fa alla propria maniera, innestando il suono dell’accordion, sempre presente, su trame blues, soul, rock, spolverate di rap e anche pop (si ascolti, come unico esempio, in tal senso, I’m Not Gonna Wait).
Così, ogni singola traccia di Came Thru Pulli’ riesce a suonare epica. I ritmi sono luminosi e magici; la musica e le parole si fondono, spontanee, in un incantesimo che affascina e, come un vero incantesimo, stregando, istiga al movimento tutto il corpo. E ogni singola sfaccettatura, ogni sfumatura di gusto di questo gumbo ammodernato non è altro che il testamento della maturità e dello sviluppo di Ardoin come musicista, autore e compositore. G.R.

NORA JEAN WALLACE

"Blues woman"

Severn Rec. (USA) - 2020

Martell/I can't stop/I'm a blues woman/Evidence/Victim/Rag and bucket/Look over yonder/I've been watching you/Dance with me/I don't have to beg you to love me

 
 
Il crudo, rude strumento di Nora Jean Wallace (un tempo Nora Jean Bruso), coi suoi riflessi androgini e un vibrato vigoroso e deciso come la stretta di una pinza, morde, con dominante sicurezza, nelle asprezze di un repertorio principalmente inedito e quasi interamente dedicato al più verace Chicago blues. Il suo canto, feroce quanto di scura fonazione, ben rappresenta la figura sanguigna della donna del ghetto: carnale, volitiva e diretta nelle proprie intemperanze di fronte al maschio irrispettoso.
Da tempo immemore lontana tanto dalle scene quanto dagli studi di registrazione, con Blues Woman la Wallace rievoca apertamente gli antichi fasti canori delle vecchie matrone urlanti del blues elettrico postbellico: da Big Mama Thornton, giù giù fino alle loro incarnazioni a noi più prossime come Koko Taylor, Bonnie Lee, Big Time Sarah; o Valerie Wellington, giovane cometa prematuramente svanita dai nostri cieli.
I bluesofili più hardcore, la ricorderanno al fianco di quel grande chitarrista - e parimenti grande talent scout - che fu Jimmy Dawkins che, sempre benevolo e generoso nell’offrire ribalte a giovani artisti, per ben due volte, in altrettanti suoi dischi, usciti a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, ospitò la Wallace in qualità di vocalist. Da lì, cominciò l’avventura discografica e solistica di Nora Jean che, come ogni creatura figlia del Delta, poi trapiantata nella Windy City, divenne moderna interprete del ben noto e caratteristico sound della città.
Questo rientro in sala d’incisione, come il suo secondo disco, è targato Severn che, in seno al genere, è etichetta benemerita, sebbene mai troppo prolifica. Qui, la manifestazione più autentica ed efficace di Nora Jean Wallace resta anche oggi, come conferma il disco, quella inquadrata nei rigori del Chicago blues più osservante. Perché, quando si discosta da questa antica ma, ben codificata e rassicurante cornice stilistica (e, in Blues Woman, accade pure che Nora Jean si abbandoni a canticchiare cosucce sciape e inutili come il funky Dance With Me), perde di colpo mordente e, con esso, tutto l’impatto terragno e petroso della propria figura canora.
Allora, dimentichi di tali e fortunatamente rari episodi, ci si addentri fiduciosi in quell’incrociare di vie del Southside cittadino che, a partire dall’alcolica Martell, attraverso l’apertamente ispirato a Koko Taylor I’m A Blues Woman, fino a Look Over Yonder, Rag And Bucket, I’ve Been Watching You e I Don’t Have To Beg You To Love Me rivela tutto il piglio minaccioso e risoluto di questa genuina blues shouter. Persino una delle poche cover presenti, quella Evidence scritta da George Jackson e divenuta cavallo di battaglia per Candi Staton qui risuona di convinto blues feel.
La house band della Severn (Johnny Moeller, Steve Gomez, Kevin Anker, Steve Guyger e Robb Stupka), la stessa già alle spalle di altre produzioni e artisti di casa, è qui arricchita dalla presenza dell’ospite Kim Wilson all’armonica e fornisce un accompagnamento economico, equilibrato e tutto teso a non allontanare dalle piene luci del palco la cantante e le sue brune corde vocali. G.R.

HEAD HONCHOS

"Blues alliance"

Grooveyard Rec. (USA) - 2020

Stuck between the middle/Mr. Bad/Number one/She got that thang/Find me a woman/Can't be satisfied/Evil/Midnight ride/We will win/Rock'n'roll/I'm a ram
 

 
Ad ascoltare quest’ultimo disco degli Head Honchos si stenta a credere si tratti soltanto di un quartetto. Il funambolico batterista Will Wyatt (già con Bob Stroger e Mike Wheeler), da solo, foggia un vibrar di pelli che pare degno di un’intera sezione di percussioni. In perfetto allineamento con la batteria, il basso di Mike Boyle (ex bassman di Son Seals), pur con l’animo del rocker, cavalca l’onda delle pulsazioni di una ritmica che odora di funk e vola su, su, fino alla testa degli Honchos, creatura bicefala formata dalle duellanti e complementari chitarre di Rocco Calipari Sr. e Jr: padre e figlio. E lo stesso Calipari - padre! - vanta trascorsi non da poco avendo prestato la sua chitarra a tipi come Buddy Guy, Carl Weathersby, Bo Diddley e Chuck Berry.
Curricula a parte o, forse, anche per merito loro, la chimica di questa band corrode fin dal primo brano. Sopra una solida base indubitabilmente blues, la ritmica serrata, insistita, dalle figure moltiplicate (raddoppiate, triplicate) forma il tappeto magico per l’incrociarsi tagliente delle due consaguinee chitarre; un incrociarsi che, a tratti, ricorda precedenti, prodigiosi incroci come quelli di Duane Allman con Dicky Betts o di Gary Rossington con Allen Collins. Comunque lontani da quel southern rock, Head Honchos dimostrano di incarnare il miglior spirito del blues-rock: quello energico e autenticamente inventivo.
Lungo tutto un disco che non concede tregue, la voce di Calipari Sr. è una glassa di vetro fuso che ricopre una torta di duro granito. E non ci si lasci ingannare da titoli che sembrano covers ma non le sono! Can’t Be Satisfied non è il rifacimento del celebre brano di Muddy Waters; così come, Midnight Ride non è la parafrasi del famoso brano degli Allman Brothers. Qui, quasi tutto è inedito tranne una stravolta, sorprendete e travolgente versione di Evil, antico hit di Howlin’ Wolf, qui riletta in chiave di psichedelico hard blues fuso in una ineludibile colata magmatica.
Il ritmo, quasi fossimo a un rave party, resta sempre incalzante. Sempre, tranne che, a sorpresa, in chiusura laddove, in veste acustica, con chitarre e percussioni, rivive lo spirito selvaggio e recalcitrante del non ancora reverendo Al Green e del suo I’m A Ram. G.R.

HENRY CARPANETO

"Pianissimo"

Orange Home Rec. (I) - 2020

Baby's got it/Tumbling/Empty/Rolling circle/Nola/My kinda slow/Moanin'/Pianissimo/Cold duck time (feat. Waldo Weathers)/I'll be there/Strong woman (feat. Lucky Peterson)/Funk thing
 

 
Concepito e prodotto in quell’insolito e oltremodo esteso orizzonte geografico che va da Leivì (Genova) a Nashville (Tennessee) da mani capaci, come quelle di Tony Coleman, storico batterista di B.B. King e di molte altre stelle di prima grandezza anche se, non sempre, di primaria notorietà, Pianissimo è un coraggioso omaggio, inglobante e onnicomprensivo, dedicato al pianoforte e alla sua rilevanza nell’ambito della musica tradizionale americana. Omaggio doppiamente coraggioso: perché, non soltanto rende merito a uno strumento che, differentemente dall’America, nel piccolo mondo antico del blues italico, purtroppo è una cenerentola e, come tale costretto, quando c’è, a defilati ruoli da comprimario, ma anche – e qui sta, oltre il coraggio, la bravura! – perché è un disco (quasi) interamente strumentale. E soltanto quella bravura che, oltre a incarnarsi in tecnica esecutiva, si materializza in idee, arrangiamenti ed estro armonico poteva vicariare alla mancanza di una voce narrante. Anche la varietà, occorre dire, gioca un ruolo non secondario nella piena riuscita di un’opera che, fin dalle prime note, tradisce un ampio respiro internazionale. Ascoltando Pianissimo, infatti, si resta sorpresi sapendo che trattasi del disco di un artista italiano, sebbene meritevolmente stimato e considerato oltreoceano.
Pianissimo è un viaggio in multicolor, un percorso guidato attraverso gli stili musicali americani dei quali il piano è stato principe indiscusso. In esso ritroviamo, dunque, il blues, il boogie, il funk, il jazz, New Orleans. Su questo vasto e variopinto palcoscenico virtuale, Henry Carpaneto cambia, ad ogni brano, vestito di scena e, del pianoforte, come di ogni stile, diventa l’interprete magistrale. Tra le tracce ritroviamo chiari rimandi a Ray Charles come a Dr. John, James Booker, Roosevelt Sykes, ai grandi pianisti blues come Otis Spann e Henry Gray, finanche a jazzisti raffinati come Kenny Barron o Tommy Flanagan (si ascolti, a tal proposito, l’eloquente Empty!).
Seppur dedicata al piano, l’opera assume una forma magicamente corale e coesa dove i coprotagonisti sono lo storico gruppo di Carpaneto, ovvero il bassista Pietro Martinelli, il sassofonista Paolo Maffi e il trombettista Stefano Bergamaschi cui si aggregano gli altisonanti nomi di Andy Pitt (chitarra), Varney Green (trombone), Rod Allen (sax tenore) e dei trombettisti Freddy Holt e Josh Harner. La squadrata, geometrica batteria di Tony Coleman (sua la voce nell’unico brano cantato), che sa anche trovare i suoi momenti di elegante levigatezza come nel classico Moanin’, fa da denominatore comune. All’allegra brigata, si aggiungono, poi, un paio di altri ospiti illustri: Lucky Peterson che imbraccia una chitarra, che sa di Texas e Albert Collins, nel vigoroso shuffle Strong Woman e Waldo Weathers, ex ancia vibrante di James Brown che, nel funk-blues di Eddie Harris Cold Duck Time, incastona le sue due perle, rispettivamente al sax tenore e baritono.
Le cose, per riuscire bene, vanno fatte alla giusta velocità. Parlando di questo elogio della lentezza che è Pianissimo, occorre notare come i sei anni passati dall’esordio solista di Carpaneto con quel Voodoo Boogie prodotto dal compianto Bryan Lee, non siano trascorsi invano. In questo tempo, le idee sono maturate, con loro, anche l’identità del protagonista. La passione che, una volta, era accesa per il piano, a giudicare da queste tracce, pare accendersi, timidamente, anche per l’Hammond (ascoltare Rolling Circle per credere). E allora, chissà che, al prossimo giro, Henry Carpaneto non ci sorprenda dando ancora un nuovo abito alla sua finezza interpretativa. G.R.

JOSE RAMIREZ

"Here I am"

Autoprodotto (USA) - 2020

Here I come/I miss you baby/Gasoline and matches (feat. Anson Funderburgh)/One woman man/Goodbye letter/The way you make me feel/Three years (feat. Anson Funderburgh)/As you can see/Waiting for your call/Traveling riverside blues/Stop teasing me
 

 
Questo disco racconta una storia: quella di chi, cresciuto in una una terra di mezzo (il Porto Rico), lontana dal mondo “emerso” e, per tradizioni e cultura, anche dal blues, ha coltivato un proprio grande sogno, dimostrando, infine, che i sogni non svaniscono: quelli veri, si vivono all’alba!
Che un giovanotto come lui, dall’aria dura e spavalda, di quelle che ti si appiccicano al viso come rughe d’espressione quando cresci in un qualche barrio di periferia possa, affamato di rivincite, non essersi tramutato nell’ennesimo emulo di qualche rockettaro impiastricciato di blues o in un nuovo ginnasta del manico, contrabbandiere di note ad alto voltaggio e numero di ottani, sarebbe cosa lontana dall’immaginazione di molti. E invece, ascoltando questo esordio di Jose Ramirez ci si ricrede. Si capisce che, dietro lui e quella sua aria da guappo, c’è autentico amore per il blues; e che il ragazzo, la propria rivincita l’ha costruita con intelligenza e savoir-faire. Che ha trasformato quel barrio in una sua personale Tin Pan Alley; che non ha ansie da prestazione, che, anzi, ha il gusto per far respirare la sua musica con una presenza strumentale porosa e ossigenata, rispettosa della coralità, dotata di senso della misura, senso del dialogo e di fisiologico equilibrio tra pausa e suono. E allora si comprende che il tatuaggio di Robert Johnson sull’avambraccio destro è lì a testimonianza sincera di un onesto e reale nesso con la tradizione, di un’anima legata davvero a doppia corda ai maestri del genere, ma anche che il giovane Jose ha idee buone come erba da far crescere, tanto che questo orgoglioso, affermativo fin dal titolo Here I Am, prodotto da Anson Funderburgh, di idee ne mette in mostra alcune, e già ben formate.
La base del succoso cocktail è un mix di Chicago e Texas blues, al quale Ramirez aggiunge moderne gocce di soul e R’n’B; e, forgiando, passo dopo passo, la propria firma, licenzia un esordio che stupisce, convince e sorprende.
Passati attraverso il tunnel di quel canonico shuffle d’apertura sulle cui pareti, a tratti, rimpallano echi di B.B. King, ecco che, nel breve giro di un brano ancora – quella Miss You Baby, prima delle sole due covers qui presenti – ci troviamo catapultati nel vivo vortice del Ramirez più fresco ed entusiasmante. Gasoline And Matches rappresenta un po’ il sunto della sua cifra musicale: liriche argute, una voce soulful e una chitarra dal giusto fraseggio e dai toni robusti; arrangiamenti accurati e moderni, poi, fanno il resto (in questo brano, è lo stesso Funderburgh ad affondare, come anche nello shuffle vaughaniano Three Long Years, le sue secche rasoiate d’appoggio). Se la caustica One Woman Man rimanda al miglior Robert Cray, quanto Goodbye Letter odora della Westside frequentata da Magic Sam, The Way You Make Me Feel è puro R’n’B che i fiati adornano con quel po’ di fiero Memphis sound. Ma è con la lenta blues ballad minore As You Can See che il Ramirez più intenso e avvincente, in odore di Bobby Bland, torna, orgoglioso, a farsi vivo: altro esempio di come il triplo talento di chitarrista, autore e vocalist, con l’essenziale supporto di una band stellare possa emanare, nel cielo della tradizione, lampi di luce propria. Proseguendo, tra una Waiting For Your Call che guarda distrattamente ad Al Green e una ben più tradizionale Stop Teasing Me, arriviamo alla seconda e ultima cover: il Robert Johnson di Traveling Riverside Blues viene qui stravolto, rallentato e reso sensualmente funk in una rendition unica e seducente.  
Registrato presso i Wire Studios di Austin, Funderburgh, da vecchio animale di mestiere quale è, provvede a mettere appresso al proprio pargolo un ensemble di prim’ordine impreziosito da Kaz Kazanoff e i suoi Texas Horns. Ma, soprattutto, da Jim Pugh che, tra piano ed Hammond, è senza ombra di dubbio il secondo protagonista indiscusso di questo disco: mai come qua lo si è ascoltato così presente, inventivo, finanche avventuroso nell’esplorare l’utilizzo dei clusters pianistici applicati al blues. G.R.

LOUISIANA'S LE ROUX

"One of those days"

Gulf Coast Rec. (USA) - 2020

One of those days/No one's gonna love me (like the way you do)/Lucy Anna/Don't rescue me/After all/Nothing left to lose/The song goes on/Lifeline (redux)/Sauce piquante/New Orleans ladies (feat. Tab Benoit)  
 
 
  
Nel 1962 Bo Diddley, spalleggiato dalla sempre arguta penna di Willie Dixon, cantava ”…don’t judge a book by its cover…”. E, se invece di un libro, si trattasse di un disco, l’invito alla prudenza nel giudizio sarebbe ancora valido? Perché la copertina di questo ultimo lavoretto dei Louisiana’s Le Roux, molto e bene lascia intendere del proprio contenuto. O, quantomeno, del proprio spirito! Tanto che, pur senza avere famigliarità con la band, se non un giudizio, almeno un’idea aprioristica e probabilisticamente corretta, ce la potremmo anche fare.
Quel pick-up dall’aria retrò, carico di strumenti che viaggia verso il sole costeggiando una palude ci parla di sud e di Louisiana e di tutto quel carico di musicalità cangiante che queste coordinate geografiche si portano appresso. Fuochino, però!...Le sonorità swampy e più tipicamente neorleansiane, saltano fuori esplicite solo in Lucy Anna e Sauce Piquante; ma il resto del disco, è più genericamente diretto verso quel sud che ha mescolato il proprio sangue col blues e, soprattutto, col rock. Quasi come mettere in uno shaker Allman Brothers, Radiators, Meters e Subdudes: agitare e servire.
Sebbene poco nota dalle nostre parti, Louisiana’s Le Roux è una band storica. Della formazione originale, in questo disco, sopravvivono soltanto il chitarrista Tony Haselden e il tastierista Rod Roddy. Attorno a loro, però, tutto è cambiato; ma non lo speziato swamp rock col quale hanno esordito, nel lontano 1978, con quell’album omonimo, uscito per la Capital Records, che varrebbe proprio la pena andare a ripescare e spolverare.
Questi Los Lobos della Louisiana - così potremmo anche definirli - diventati un ottetto con doppia chitarra, doppia tastiera e percussioni, tornano a farsi vivi, a dieci anni dalla loro ultima sortita, con un piccolo gioiello: dieci brani, di cui otto freschi di pacca, prodotti dal leggendario Jeff Glixman (Kansas, Gary Moore, Black Sabbath...) e interpretati dalla voce, così naturalmente soulful, del nuovo acquisto Jeff McCarty.   
Il brano omonimo d’apertura, con i suoi echi di Doobie Brothers e Allman Brothers e il suo incedere così dannatamente percussivo, sembra il tipico brano-esca di facile presa ma, appena svoltato l’angolo troviamo orizzonti ben più famigliari ad altissimo coinvolgimento emotivo. Se No One’s Gonna Love Me e After All parlano la lingua di un soul maturo e moderno, Don’t Rescue Me è quel blues-rock che fa tornare alla mente i Lynyrd Skynyrd, Nothing Left To Lose potrebbe suonare come qualcosa di palustre rubato, a sorpresa, alle corde di un improvvisamente indurito Robert Cray e The Song Goes On come una versione, appena alleggerita, dei fratelli Allman a noi più cronologicamente prossimi.
In questo loro prepotente ritorno in scena, i Le Roux, buttano dentro anche un paio di rifacimenti a sorpresa: Lifeline, rielaborazione dell’omonimo brano ripescato dall’album So Fired Up e il loro classico New Orleans Ladies, hit estratto dal già citato disco d’esordio che, qui, beneficia dell’assolo di Tab Benoit, gradito ospite.    
One Of Those Days è l’opera, organica e corale, prodotta da un manipolo di musicisti di lungo corso ai quali non c’è proprio nulla da insegnare. E Jeff McCarty, era il loro tassello mancante: con lui in cabina, i Louisiana’s Le Roux sono pronti a spiccare nuovamente il volo, nell’alto dei cieli! G.R.

PETE THELEN

"Best for last"

Autoprodotto (USA) - 2020

You make it easy (feat. Bennie Hughes)/Some kind of sign (feat. Annie Dekon)/Wind up from Mexico (feat. Lester Chambers)/Part time love (feat. Rena Haus)/Gettin' down to business/Voodoo king/Storm a brewing (feat. Linda Moss)/Lost and found/Move on/Spiderlake woman/New pain/Thought passing through  
 
 
 
Nato nei dintorni di Chicago, tra gli evanescenti confini di quel Midwest dove la culla del blues ha dondolato a lungo, Pete Thelen è uno di quei tanti artisti “intermittenti” per i quali l’assenza di continuità col palco o con le sale di registrazione, non ha contribuito a illuminarne la figura in modo proporzionale al merito. Questo suo Best For Last, come lascia ben intendere il titolo e come - più che altro - conferma lui stesso, sarebbe il suo canto del cigno, l’opera dell’addio: un disco che, nel suo voler essere summa, raccoglie generosamente molti amici ospiti e offre, quasi fosse un festoso greatest hits’, lo spaccato ben rappresentativo dell’artista, cantante e autore. Perché Thelen è un’ottima figura in entrambe le vesti!
La prima la mostra, in varie ed eventuali dimensioni. Quella acustica, da raconteur e su una base di soli contrabbasso e accordion, di Gettin’ Down To Business; quella allucinata e stregonesca delle neorleansiane Voodoo King, Move On e Spiderlake Woman, col suo songwriting in bella mostra e poi, ancora, in una chiara, improbabilmente alta tonalità da crooner, con il delicatamente ironico blues Lost And Found, illuminato dal morbido sax di Jim Massoth. La stessa tonalità che troviamo, già in apertura, con quello schietto R’n’B a-la Bobby Bland che è You Make It Easy (questa volta, il sax - come la voce! - sono di Bennie Hughes e la batteria del leggendario Chico Chism!) e che apre il capitolo del Thelen autore consegnato all’interpretazione altrui. E qui, incontriamo la deliziosa, bluesy Some Kind Of Sign, interpretata dalla seducente, felina Annie Dekon e impreziosita dalla grintosa slide guitar di Charlie Prazma; la contagiosa desolazione blues, per chitarra acustica, armonica e voce di Wind Up From Mexico, interpretato dal ghiaioso e sonnecchiante strumento di Lester Chambers, il gommoso swing di Part Time Love affidato al mobile contralto Rena Haus o ancora l’elettro-blues Storm A Brewing fieramente graffiato dal ruggito eversivo di Linda Moss e dalla palpitante chitarra di Charlie Prazma.
E in onore al titolo, il miglior Thelen è, forse, quello intimo che chiude il disco: quello della fine di Best For Last che, poi, sembra essere anche la fine di un ciclo. Come in una storia che si chiude, di vita o d’amore che sia (sempre che tra le due cose ci debba essere differenza), i pensieri, i ricordi tutti passano in fila come passano i volti; svaniscono, confondendosi l’un l’altro, e ciò che resta è solitudine e un senso di quieta, rassegnata malinconia. Thought Passing Through fascia, in un tenero abbraccio, questo testamento artistico. L’espressivo, maliconico violoncello di Hans Christian ne cattura tutto il sentimento che vi aleggia e pone questa delicata ballata acustica per pianoforte, chitarra e voce su un piano ben diverso, e ben più profondo, rispetto al resto del disco. G.R.

FABRIZIO POGGI

"For you"

Appaloosa Rec. (ITA) - 2020

Keep on walkin'/If these wings/Chariot/Don't get worried/I'm goin' there/For you/My name is earth/Just love/Sweet Jesus/It's not too late
 
 
 
Parafrasando un vecchio detto, se non acqua, quanti dischi sono passati sotto i ponti? O appresso a un qualsiasi crossroad, come nel luciferino mito johnsoniano? Per Fabrizio Poggi, “...fell down on his knees…”, questo è il ventitreesimo - disco! - che vede scaturire dalle proprie mani; sempre poste, prima di tutto, dinnanzi al cuore e, qui, come non mai.
Ascoltando For You si capisce quanto il cadere in ginocchio o l’inginocchiarsi, volendo concedere al gesto un moto volontario di remissione a un qualcosa di, a noi, superiore - musica, arte o un’entità, in qualche modo, divina della quale ci si fa strumento - sia un atto, a un tempo, di umiltà e di ammissione: forse, anche, di vero e proprio riconoscimento dei propri confini e degli strumenti utili a superarli o, diversamente, accettarli.
Chi conosce Fabrizio e la sua storia, di vita e musica, dopo questo ascolto, resterà un po’ spiazzato. O, adesso che, mentre sto scrivendo, ci penso meglio, forse no! Perché in queste tracce che, sorprendentemente, si concedono più volte al jazz, c’è sì, una forma evidente di novità, ma anche una coerenza di fondo.
For You mantiene una linea in prevalenza intima, introspettiva. Tra libertà jazzistica e rigorosa sistemazione delle parti, questa musica rimane magicamente osmotica nella sua sintesi tra propensioni africane e rigore timbrico, tra linee melodiche e stratificazioni armoniche. I primi brani, nel loro rarefarsi notturno, paiono quasi passati attraverso il filtro di quel genio di George Russell e l’agile, evocativo sax (che è di Tullio Ricci e incrocia ripetutamente la sua strada con quella dell’armonica) si lancia, su Keep On Walkin’, in visionari voli che, talvolta, somigliano a quelli arditi di un Eric Dolphy.
Il disco è pervaso, in tutta la sua lunghezza, da un senso di aleggiante solennità, di ineludibile sacralità: quelle stesse che, mediate dalla cultura africana, mai vanno confuse con rassegnazione o fatalismo; piuttosto, con quella coscienza del limite, invalicabile, che fu già degli antichi greci. Ne sono esempi espliciti le inedite My Name Is Earth e la conclusiva It’s Not Too Late, entrambe illuminate dalla presenza di Arsene Duevi, voce dall’Africa, alla chitarra e al canto.
Spiritual, work songs, un pizzico di world music si accavallano e, nelle mani di Stefano Spina, qui arrangiatore molto prima che polistrumentista, si amalgamano con rara perfezione ed efficacia, dando vita a una serie di suggestivi fotogrammi in bianco e nero. Adattamenti, perlopiù, di traditionals che, nel loro adattarsi, cambiano anche nome: Swing Low Sweet Chariot diventa semplicemente Chariot, Wayfaring Stranger diventa I’m Goin’ There e così via. Da questa linea maestra, si discostano soltanto Don't Get Worried, per il corpo e l’energia elettrica che la chitarra di Enrico Polverari infondono a questo atipico gospel e l’omonima For You, delicata ballad uscita dalla penna di Eric Bibb, che il pianoforte di Stefano Intelisano trasforma in qualcosa che potrebbe ricordare Randy Newman.
Per questa avventura, oltre ai già citati, i compagni di strada di Fabrizio sono Giampiero Spina (sua la spettrale chitarra in Keep On Walkin’), Tito Mangialajo Rantzer al contrabbasso, Luca Calabrese alla tromba e un ritrovato Pee Wee Durante, del quale avevamo perso le tracce nel post Nick Becattini Band, all’Hammond.
Per molti, questa musica, ha rappresentato una forma di salvezza: per chi l’ha inventata, per chi l’ha interpretata, per chi al suo edificio sonoro ha aggiunto anche un solo, piccolo, mattone. E, per chi, come i più, l’ha soltanto ascoltata ritrovando in essa la frequenza di risonanza della propria anima e quell’orizzonte di salvezza, antidoto certo all’appiattirsi del proprio sentire. G.R.
THE FULLERTONES

"Stay electric"

Il Popolo Del Blues Rec. (ITA) - 2020

Fairyland/Wise up/Deal with the devil/Way down/Sheep dogs/Can you hear me/Stay electric/Two steps/I believe
  
 
 
Prima dei vari contemporanei texani Gary Clark Jr., Doyle Bramhall II o Chris Duarte, sicuramente interpreti di un genere che, partito dal blues, è diventato, lungo la via, qualcosa di meticcio e ricercato, in questo notevole Stay Electric, si avvertono marcate le influenze di tutti quei gruppi inglesi che, nello scavalco tra gli anni ’60 e ’70, hanno spopolato in quel mondo così vorace di emozioni e libertà. Qui dentro, ci puoi sentire l’anima più genuina degli Zeppelin, dei Deep Purple; in alcuni momenti, persino lontani echi di Paul Kossoff e i suoi Free. Insomma, tutti quei gruppi storici provenienti dalle regie terre di Her Majesty e che, pur facendo del rock il proprio vessillo elettivo, portavano evidente nei propri cromosomi, l’antico genotipo del blues americano.
Ma, dal quel rock così commisto al blues, del quale mantengono intatta tutta la carica elettrica, The Fullertones si elevano in verticale, innestando sulla giovane pianta, germogli di creatività; vasi linfatici che, quando credi di averne intuito la traiettoria, scartano di lato e all’improvviso, s’immergono nei tessuti per alimentarli dalle profondità viscerali. Nati nel 2017, provenienti dal Gran Ducato di Toscana, non sarà allora un caso se, in una delle ultime edizioni del Torrita Blues Festival, hanno aperto il palco proprio ad altri emissari di Sua Maestà la Regina: gli Animals.
Da “genuine rockin’ blues combo”, come si autodefinivano nel loro EP iniziale, hanno mantenuto tutta la genuinità, aggiungendo al loro blues-rock, dosi misurate di garage e fuzz. E il risultato, è davvero elettrizzante. Questo esordio in formato long playing, ha avuto una gestazione travagliata: nato in periodo pre-covid, il suo sviluppo avrebbe previsto la partecipazione di alcuni illustri ospiti stranieri. Ma la pandemia ne ha deciso diversamente il destino: il disco è nato, suo malgrado, autarchico e, a giudicare dal risultato, bene così! Questi quattro ragazzi, avrebbero certo meritato di essere accostati a qualche nome celebre se non per altro, per fare da sempre utile volano. Ma, che ne avessero davvero bisogno, questo proprio no! Sanno stare già bene in piedi da soli. La chitarra di Lou Leonardi è perfetta: alle sue parti, non puoi aggiungere o togliere nulla senza incrinare l’intero edificio sonoro. Una ritmica arrogante in tutta la sua virulenta precisione e una voce, quella di Francesco Bellia, che davvero ricorda quella del Paul Rodgers dei Free. La capacità, poi, di creare testi ben scritti e originali completa il già edificante quadro d’insieme.
I bluesofili più osservanti, si dissetino con l’indiavolato boogie Can You Hear Me e con Deal With The Devil, nostrana rivisitazione del sinistro mito eterno del crossroad; gli altri, si ubriachino pure con tutto il resto del disco! G.R.
DELTAPHONIC

"The funk, the soul & the holy groove"

Autoprodotto (USA) - 2020

Liars/Ghosts/Bad people/Starlit/New mexican rockstar/If it don't bleed/Don't have to be good/Mississippi/The denouement/See red
 
 
 
Sebbene il carnascialesco caleidoscopio sonoro, caratteristico di questa giovane formazione, non contribuisca a connotare la band in termini stilisticamente netti, i loro brani, come i dischi, irradiano tutti un’intelligenza e un’autenticità insoliti.
I Deltaphonic (trio base, cui si aggiungono, talvolta una seconda chitarra, tastiere, percussioni, sassofono, cori e, finanche, un violoncello), originario di quel sacro crogiuolo di etnie e influenze che è la Nouvelle Orleans, mescolano sapientemente funk, soul, rock’n’roll, Mississippi Hill country blues e lo spirito improvvisativo di una jam band, ricavandone un amalgama unica dove il multistrato sonoro di partenza si confonde fino a perdere i propri riconoscibili margini di demarcazione diventando quell’indistinto impasto il cui denominatore, comune e davvero “sacro”, è solo e soltanto il groove. La band non si perde in chiacchiere e, con l’iniziale Liars, certamente uno dei brani principe del lavoro, mette già le carte in tavola, presentando agli ascoltatori tutta la rivoluzionaria, virtuosa musicalità di cui sopra.
Se in un brano come Don’t Have To Be Good aleggiano, in trasparenza, i vecchi ZZ Top e Ghosts, coi suoi cambi di tempo, e non solo quelli, deve qualcosa ai fratelli Allman, quasi tutto il disco è gravido di sudore, sangue e urgenza pulsante, proprio come quella che si manifesta in If It Don’t Bleed, coi suoi vaghi rimandi ai North Mississippi Allstars. Ritmo e forza propulsiva a parte, l’altro rilevante aspetto di questa band riguarda l’evocativa, talvolta provocatoria, freschezza dei testi. Quando Andrew T. Weekes, cantante, chitarrista, leader e autore, in Mississippi canta ...strung out like a mother of pearl, hangin’ ’round the neck of a dead-eyed girl... manifesta quegli improvvisi squarci di pungente poesia che avevamo già conosciuto nello loro registrazioni passate - questa è la loro terza! - in brani come Too Late To Hang Me. Gli stessi, comunque, che ritroviamo nell’elegante lucentezza del quieto, moderno R’n’B a-la Al Green di Starlit, con la candida uscita di “...I’ll be the cherry on your cigarette, if you keep my dreams starlit…”.
The Funk, The Soul & The Holy Groove è un disco che, seppur con rari risvolti teneri e aggraziati, perlopiù gratta nel torbido, su quei selciati dove “ladri e magnaccia” corrono liberi: è un disco per amanti delle sfide sonore, più che per affannati ricercatori di certezze ma che, in tutto il suo inconsueto ardire, potrebbe risultare tra le migliori uscite di questo strano 2020. G.R.
JOHN 'BLUES' BOYD

"What my eyes have seen"

Gulf Coast Rec. (USA) - 2020

In my blood/My memory takes me there pt.1/What my eyes have seen/My memory takes me there pt.2/I heard the blues/My memory takes me there pt.3/Ran me out of town/My memory takes me there pt.4/A beautiful woman (for Dona Mae)/My memory takes me there pt.5/Why did you take that shot?/My memory takes me there pt.6/California/That singing roofer/My memory takes me there pt.7/Forty nine years/My memory takes me there pt.8/Got to leave my mark/My memory takes me there pt.9              
 
 
 
Abbiamo imparato a conoscere tardi questa perla nascosta del blues, come tutte le perle - e le più preziose -  protetta da un guscio che, nell’apparire inespugnabile, s’è aperto improvvisamente, senza avvisaglie, mostrando tutta la radiante bellezza del proprio contenuto. L’abbiamo conosciuta nel 2016 quando, con lo straordinario The Real Deal, le sue valve, a sorpresa e col fondamentale, decisivo apporto di Kid Andersen, si sono definitivamente schiuse.
Baritono di tonalità magistrale e dalla inusuale chiarezza di dizione, lo strumento lievemente gommoso di John ‘Blues’ Boyd, a metà strada tra la cheta colloquialità del crooner e la veemenza dello shouter, si fa qui più intimo e introspettivo. La finalità del disco, ben esplicitata dalla limpida eloquenza del suo titolo, richiedeva uno sguardo più riflessivo e profondo nella propria retrospettica visione d’insieme: la storia di un uomo che, nato nel ‘45 in Mississippi, transitato ancora fanciullo per i campi di cotone, ha visto incise sulla propria pelle tante esperienze, dai giorni foschi di Jim Crow fino agli assassinii di Kennedy e King e a tutte le traversie storiche del popolo afroamericano degli anni ‘60.
Se, da un lato, What My Eyes Have Seen si manifesta come un bellissimo disco di blues elettrico fondamentalmente tradizionale, per suoni e stile, da un altro punto di vista appare come un qualcosa di poco comune. La differenza sta tutta nel modo in cui l’opera viene presentata: come il memoriale di un testimone del tempo. I ricordi di un John ‘Blues’ Boyd che, ormai in là con gli anni, come seduto sotto un portico a godersi il piacevole refrigerio di una sera di fine estate, ripensa la propria vita. E, questi pensieri, nell’emergere, diventano vignette: in parte, politico-sociali, in parte private ed esistenziali. Vignette che, poi, nelle mani di Andersen e di Guy Hale, trasfigurano in materia canora fatta e finita. Sono dieci questi ricordi in forma canzone, intervallati da brevi interludi, lordi di quel fango da palude, parlati e rimarcati da una chitarra che sa di kora e Africa e un organo churchy, a evidenziare la sacralità del vissuto che si fa memoria.
Tra il delicato, sinuoso swing di Why Did You Take That Shot, le atmosfere vagamente anni ‘60 di California e On The Run (che ricorda il Tommy Tucker di High Heel Sneakers) e l’ombra di T-Bone Walker che sgomita, a tratti, tra le tracce, si fa strada il sinistro, notturno monito in minore della titletrack, resoconto di difficoltà e tormenti ben riassunti, con sintetica efficacia in versi come “...if you could walk a mile in these shoes that do not fit…o ancora “...you could understand why in the shadows I’ve been, if you had only watched what my eyes have seen...”.
Ancora una volta prodotto da Kid Andersen (che, qui, si presenta pure in veste di chitarrista e tastierista!), in questo disco si compie, in piena coerenza, la dichiarazione d’intenti del brano conclusivo: “...I got to leave my mark and make my story very clear…”. G.R.
SHAWN PITTMAN

"Make it right!"

Continental Blue Heaven Rec. (USA) - 2020

Done tole you so!/Finger on the trigger/Make it right/I feel good/There will be a day/How long?/For right now/Cold sweat/Woke up screaming/Let it go/Fair weather friend/I'm done
              
 
 
Well I warned you brother, she taking you down slow…” avverte chiaro Shawn Pittman già nell’introduttiva Done tole you so. E il brano, che rivisita i più classici temi blues del tradimento e della malafemmina, ben si presta a chiarir, già in apertura, buona parte dei propri intenti.
Con Make It Right, Pittman, che torna a registrare dopo un periodo di assenza dalle scene, si dimostra diretto e viscerale come e meglio di prima. Malgrado non possa vantare natali texani, la sua chitarra, dalla tipica dialettica secca e puntuta, ha fatto sì che il proprio nome sia sempre stato accostato al blues del Lone Star State. E non proprio a sproposito considerato che, stile a parte, giunto in Texas da studente, ha trovato modi e tempi per condividere le scene con (e farsi influenzare da) alcuni dei più validi musicisti locali.
Ad ascoltare il disco, non si riesce proprio a credere che la genesi dello stesso sia stata una accidentale, fortuita occasione, capitata durante un tour europeo dello scorso autunno. Invitato dall’agente e bassista Erkan Özdemir per una serie di concerti in trio, durante un paio di day-off la band, scelta una manciata di brani, metà dei quali inediti, si è chiusa nello studio di registrazione del giovane Christian Heyman Zinckernagel da Copenhagen e, pigiati i tasti ‘play’ e ‘rec’, ci ha dato dentro.
Con un evidente feel per blues e funk, la chitarra di Pittman che, se avesse occhi, li strizzerebbe a turno a Jimmie Vaughan, Billy Gibbons, Albert King, Anson Funderburgh, Otis Rush, Magic Sam e Johnny “Guitar” Watson, e non necessariamente in questo preciso ordine, si libra sicura e gagliarda sulle trame di un tappeto ritmico, sempre agile e pulsante, assicurato da Erkan stesso e dal giovane figlio batterista Levent. Il senso di genuinità e immediatezza che si respirano a pieni polmoni, non sono per nulla da confondere con approssimazione e superficialità! Al contrario, l’ascolto, in tal senso, non concede dubbi sul fatto che il trio si sia lasciato andare a briglia sciolta, come in uno qualsiasi dei loro concerti, soltanto senza un pubblico di fronte.
Se sette dei brani presenti sono la fine farina del sacco di Pittman, i restanti cinque sono scelti, con un certo ecclettismo, tra il materiale di Junior Kimbrough, Albert King, Bobby Bland, Eddie Taylor e - sorpresa! - James Brown (strumentale, la rivisitazione del classico Cold Sweat).  
Ciò che sarebbe stato solo un gran bel disco, è diventato magistrale grazie alle capacità di ingegnere del suono, nonché di produttore, del giovane Heyman la cui mano, onesta e diretta, nella sua polposa crudezza, ha dato forma compiuta a un meraviglioso mix di funk e downhome blues. G.R.
TOMÁS DONCKER

"Moanin' at midnight - The Howlin' Wolf project" - deluxe edition

True Groove Rec. (USA) - 2020

Evil/Killing floor/Back door man/Moanin' at midnight/Spoonful/Little red rooster/I ain't superstitious/Smokestack lightning/Moanin' at midnight - (Ras Jah Anes dub mix)/Back door man (live at The Iridium, NYC)/Shook down (live at The Cutting Room, NYC)/Smokestack lightning (live at The Blue Note, NYC)
    
          
 
Ci sono stati musicisti al mondo, tanto monumentali e influenti da far sì che, prima o poi, ne venissero fuori altri desiderosi di riproporre e personalizzare la loro musica. Così, a Tomás Doncker chitarrista e cantante non propriamente blues, l’idea di registrare un tributo a uno di questi musicisti, Howlin’ Wolf, è balenata nella testa già nel lontano 2013, in quel di New York. E la lenta maturazione di questa idea ha fatto sì che il frutto della stessa cadesse dall’albero soltanto quest’anno, in quel mondo della musica che, già zeppo di etichette, non sentiva la necessità di un nuovo conio.
Dunque, il non meglio chiarito termine “global soul” appiccicato addosso a Tomás Doncker e alle sue idee sonore, letto così, quando non esattamente fastidio, suscita almeno un qual certo disamore. A metterci un po’ di buona voglia, si potrebbe tentare di immaginarne pressappoco il senso leggendo, da un lato, la storia artistica di Doncker e, dall’altro ascoltando, con orecchie curiose e ben aperte, questo Moanin’ At Midnight: The Howlin’ Wolf Project. Soltanto qualcuno con trascorsi musicali così diversi come Doncker avrebbe potuto, infatti, concepire un disco tributo ad Howlin’ Wolf inusuale e, tutto sommato, riuscito.
Tra tutti i padri costituenti del blues che hanno contribuito a traghettare generazioni di futuri rockers, principalmente inglesi, verso le sponde più urbane del genere, Howlin’ Wolf è stato tra quelli maggiormente efficaci e seguiti. I pezzi forti del suo songbook, al quale non poco contribuì Willie Dixon, sono stati oggetto di riproposizioni a più riprese e in diverse salse. Ricordiamo, per esempio che, storicamente, fu proprio la stessa etichetta Chess, sul finire degli anni ’60, a tentare di collegare l’ormai declinante Wolf al mondo del rock - ahimé, più psichedelico – pubblicando This Is Howlin’ Wolf’s New Album, disco rinnegato dallo stesso Wolf, fin da subito e in modo impietoso, con quella celebre ed esplicita dichiarazione in bella mostra sulla copertina: “This is Howlin’ Wolf’s new album: he doesn’t like it!”. A rimarcare le distanze dal risultato e dalle stesse deformanti costrizioni che lo avevano generato.
Lungi da quei lontani, penosi e innaturali esiti, l’operazione compiuta oggi da Doncker dimostra, invece, quanto le vecchie storie racchiuse in Smokestack Lightnin’, Evil, Killing Floor (slabbrato rispetto all’originale), etc. siano ancora vive tanto da poter essere narrate di nuovo con modalità attuali e personali. Gli occhi coi quali ha gettato il suo sguardo sul repertorio del “Lupo” sono quelli di uno che, transitato per molte terre di confine come quelle abitate da Defunkt, Sadao Watanabe, Bootsy Collins, Ivan Neville, quando affronta (o ritorna) al blues, lo fa in maniera poco usuale e scevra da impiastriccianti cliché. Doncker, anzi, ha dato a questi celebri brani un tocco moderno senza perdere in autenticità.
Il fluido magma del suo tonante baritono, pur distante dal peculiare timbro, imperioso e acidulo del gigante mississippiano, ben richiama le profondità declamatorie del “Lupo” che si fanno cupe e carnali come nella rivisitazione del demoniaco, omonimo Moanin’ At Midnight (qui riproposto, anche in versione dub. sul finire del disco). Le pagine rivisitate coprono il periodo a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60, quest’ultimo dominato dai bozzetti di Willie Dixon Little Red Rooster, Spoonful, I Ain’t Superstitious, Back Door Man, opportunamente inclusi. L’armonica di David Barnes che in più di un’occasione ricorda, per tono e agilità, quella di John Popper, e il resto della band creano una macchina da groove contagiosa. E le influenze, portate in questo disco, pur non reinventando il genere dimostrano quanto il repertorio di Wolf suoni ancora rockin’, soulful e dannatamente bello! G.R.

LUCIANO FEDERIGHI & DAVIDE DAL POZZOLO

"Viareggio and other imaginary places"

Appaloosa Rec. (ITA) - 2020

Later than you think/Don't count on me/Darkness will never hurt you/Coldhearted lane/Mr. Lonesome/London paradise (a West End cure for the blues)/A sabbatical from the blues/Margaretville Hotel/Prisoner of the past/Viareggio in June/Lonesome as the moonlight/Hunting time in the old town/Suddenly I'm hurt/The unrecorded passeggiata blues in C minor
    
          
 
Nell’ormai vasta produzione discografica di Luciano Federighi, parte della quale include un paio di lavori già editi dalla storica e gloriosa etichetta Appaloosa, questo Viareggio And Other Imaginary Places si distingue per alcune peculiari scelte. La prima è certamente quella di aver optato per una pressoché inedita - per lui! - formula a duo; e, per un disco uscito a marzo, dunque pochi giorni prima che si scatenassero le misure conseguenti all’imminente pandemia, tale scelta, nel suo andare in direzione scrupolosamente contraria a quella degli assembramenti, ancorché orchestrali nel caso specifico, pare quasi anticipatoria, premonitrice. La seconda, è l’aver scelto di illustrare copertina e booklet con le chine di Federighi che, oltre a essere notoriamente tutto quello che è, in ambito musicale, è anche, forse meno notoriamente, un valente disegnatore.
Il bianco e nero di queste gustose e, talvolta, inquietanti tavole rievoca quell’idea di essenzialità spiccia, di urgente immediatezza che ritroviamo poi nel piano (un vecchio, acciaccato Steinweg suonato, in tutta la splendida crudezza del proprio riverbero, dallo stesso Federighi) come nella piena, avvolgente tonalità di un sax, principalmente tenore (suonato da Davide Dal Pozzolo, già suo partner di lunga data) che si fa, alla bisogna, contralto e pure flauto: un’idea di racconto senza fronzoli e superflue inflorescenze che, per il tramite di quella tipica voce arrocchita, dalle dense pastosità nasali, si sgroviglia sugli intrecci di questi soli due strumenti che, talvolta, pare giochino fanciullescamente a rincorrersi.
Chi è avvezzo al resto della discografia di Federighi, dalla musicalità sempre precisa e curata, resterà parzialmente spiazzato per la verace crudezza blues e il ruspante senso di informalità che pervade il lavoro, tanto da renderlo somigliante a uno scatto - istantaneo - rubato in un attimo fuggente di musica condivisa: complice, in ciò, anche la registrazione, di queste tracce tutte, in presa diretta e nel chiuso di uno studio della vecchia Torino.
Ciò che non sorprende, invece, ma si riconferma certezza, è la scrittura dei suoi racconti in musica: solitari, tormentosi blues che hanno a che vedere con una Viareggio che, al netto di quella che si mostra “...in June”, sembra più fantastica che reale.
Al pari delle illustrazioni, che paiono uscite da labirinti mentali o turbanti incubi notturni, con quelle loro linee aeree che emergono l’una dall’altra, quando non si confondono l’una nell’altra, le luci e le ombre della scena mutano in una varietà di atmosfere cangianti. Questo dialogo a due voci, ben più intimo e schietto rispetto alle prove corali del passato, vive di un proprio swing dalla grassa, sguisciante fluidità e ha il pregio di avvicinare meglio l’ascoltatore all’immaginifica, talvolta ironica, poesia delle canzoni: vero panorama di questo chiaroscurale, tortuoso vagare. G.R.
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