2018 - Macallè Blues

Macallé Blues
....ask me nothing but about the blues....
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2018

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I dischi in evidenza...2018


I dischi in evidenza: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle più interessanti (a mio personalissimo avviso!) novità discografiche, suddivise per anno di pubblicazione!

BOZ SCAGGS


"Out of the blues"

Concord Rec. (USA) - 2018

Rock and stick/I've just got to forget you/I've just got to know/Radiator 110/Little miss night and day/On the beach/Down in Virginia/Those lies/The feeling is gone

L’epicentro delle scosse che irradiano da Out Of The Blues è tutto concentrato nella magistrale, definitiva rilettura, data da Scaggs, del Neil Young di On The Beach! Calato nel mare calmo e rarefatto di un ambiente amniotico, Scaggs si spinge giù giù, nel ventre ombroso dei versi di Young restituendone, sulle dense sabbie mobili di onde sonore che diventano un lento, dilatato blues minore, tutto il suo tormentoso senso di solitudine e di quieta, rassegnata disperazione.
Potremmo fermarci qui; e, con noi, il mondo tutto. Ma, lasciare intentata la pur complicata risalita verso la superficie, ci priverebbe del buono ancora da scoprire. Per esempio, il mai dimenticato Bobby Bland qui omaggiato, a filo di crooning, con I’ve Just Got To Forget You e la conclusiva The Feeling Is Gone; l’ottima penna di Scaggs che si misura, vincente, con quel rock’n’roll a là Chuck Berry che è Little Miss Night And Day o ancora la ruspante rivisitazione del Jimmy Reed di Down In Virginia. Ma, poi, il nostro torna addirittura a superarsi su tre moderni inediti: l’introduttivo West Coast blues futurista, in punta di falsetto e armonica, Rock And Stick, l’insinuante, accaldato Radiator 110 e lo strepitoso Those Lies, moderna e contagiosa rivisitazione del tema del 'cheating and lying' su un trionfo di Hammond e fiati. Ad accompagnarlo, in questo viaggio vincente, molti amici e musicisti emblematici: da Doyle Bramhall II a Steve Freund, da Ray Parker Jr. a Jim Keltner.  
Per stelle del rock o del pop, incidere un disco blues o, più genericamente blues-oriented, è assai spesso qualcosa che non travalica i confini del puro e semplice sfizio. Non per Boz Scaggs, però! Lui, il roots & blues l’ha sempre lambito, attraversato, praticato e ritrovato lungo tutta intera la linea della sua vita artistica. E, oggi, che ha settantaquattro anni, anche se non ne porta evidenti i segni, alle radici ritorna chiudendo un ciclo iniziato molto tempo fa. E’ una linea circolare il cui primo tratto venne tracciato nel 1965 con Boz, primissima incisione edita dalla Polydor e pubblicata soltanto per il fortunato popolo di Svezia. Seguirono la collaborazione con Steve Miller, quale bassista e cantante e, poi, quel disco omonimo che, finalmente e apertamente palesò il vero amore musicale di Scaggs, sottolineato dalla lunga rilettura del Fenton Robinson di Somebody Loan Me A Dime. E’ nel 1997, però, che dopo ripetute divagazioni nell’ambito di un pop-rock sicuramente colto e fatto nobile dal suo attento songwriting, con il sorprendente e molto opportunamente intitolato Come On Home, Scaggs segnava il suo primo e convinto “ritorno a casa”, tributando il proprio omaggio a blues e soul, sue antiche e mai sopite fiamme. Del resto, il suo strumento vocale, caratteristico per il timbro nasale e l’ondulata risonanza, ben gli consentiva la calata nei meandri di tali idiomi.
Out Of The Blues, dunque, è l’ultima pagina di quel rinnovato e reiterato ritorno alle origini, iniziato con Memphis, prima, e A Fool To Care, poi. Ma - si badi - non è, questo, l’ultimo episodio di una trilogia; casomai di una tetralogia, avviata proprio con Come On Home. O, ancora meglio, l’ultimo tratto di un percorso: una linea netta che, fosse sul palmo della sua mano, sarebbe indubbiamente quella della vita. G.R.


JOSÉ JAMES


"Lean on me"

Blue Note Rec. (USA) - 2018

Ain't no sunshine/Grandma's hands/Lovely day (feat. Lalah Hathaway)/Lean on me/Kissing my love/Use me/Who is he/Hello like before/Just the two of us/Hope she'll be happier/The same love that made me laugh/Better off dead

L’immediata impressione che suscita la rilettura che José James offre del prezioso songbook di Bill Withers è quella di un diffuso senso di intatto.
Non nuovo ai tributi (suo anche il precedente Yesterday I Had The Blues dedicato a Billie Holiday), questa diafana, visionaria creatura che annovera, tra le sue prime stelle comete, figure spettralmente lontane come John Coltrane, Marvin Gaye e la stessa Holiday, in equilibrio sempre instabile tra vocalità jazz, musica dell’anima, house, pop e hip-hop, nonché tra inquiete commistioni e ibride mescolanze che già, prima che sue, furono, con altri riscontri e fattezze, di Roberta Flack, Gil Scott Heron, Donny Hathaway, Terry Callier, si affaccia ora sullo stagno dove affiorano, come ninfee in ordine sparso, gli hit del Withers dei primi anni ’70.
Bill Withers è stato colui che, appena a ridosso dell’epoca d’oro della soul music, privo della veemenza vocale propria del classico soulman, ha portato in dote al mondo il suo talento di autore più che di cantante, donando al genere una ricchezza lirica, malinconica ed emotiva, fino a lì quasi sconosciuta.   
Le pagine scelte, per Lean On Me, sono quelle più comuni e note che il gentile baritono di José James, dal timbro nasale sorprendentemente prossimo a quello di Withers, reinterpreta in maniera pressoché aderente agli originali dell’epoca. Il “pressoché”, però, lascia necessari spazi aperti all’indagine che, fermi i punti massimali sintetizzati all’inizio, non può che muoversi in direzione dell’interpretazione e dell’occasionale, lieve rivisitazione dei dettagli o nell’aggiunta di elementi che, nella strumentazione, negli arrangiamenti o nella lettura vocale del brano, vanno a caratterizzare in modo un po’ più personale e rinnovato alcuni brani rispetto ad altri. Sono differenze che si rivelano con sommessa discrezione manifestandosi, poco a poco, col ripetersi degli ascolti e con l’abbandono progressivo all’irresistibile fascinazione suscitata da tali, ora più estroversi ora intimi, bozzetti.    
Così, la sostanziale integrità di Ain’t No Sunshine o di Lovely Day viene soltanto lievemente turbata: la prima, dall’intervento impressionista delle tastiere; la seconda, dall’inserto vocale di Lalah Hathaway. Grandma’s Hands, rallentata e ricondotta in un alveo di liturgica sacralità famigliare, si dilata in una contrita marcia solenne. Il già contagioso funk di Kissing My Love subisce ulteriori sottolineature sfociando in un insinuante assolo di flauto; la pensosa, malinconica delicatezza di Hello Like Before, viene amplificata da eteree tastiere e dagli accordi introduttivi di una chitarra in odor di brasiliana saudade. Altre cose le ritroviamo pressoché intonse: la chiara matrice churchy di quell’inno alla solidarietà che è Lean On Me, la sinuosa, elastica sensualità di The Same Love That Made Me Laugh o più generalmente le frequenti ritmiche funk come quelle di Use Me, qui illuminato da un tagliente inciso di sax, o di Who Is He, magistrale variazione sul tema ossessivo del sospetto e del tradimento.
Chi s’è fatto sedurre dall’agrodolce, squisitamente umana poesia delle sue prime incisioni troverà, qui, spunti eccellenti per rinfocolare, senza stravolgerla, la memoria di Withers. In quello stagno e tra quelle ninfee, vi si affaccia intera, specchiandosi, la figura di José James: ma l’immagine riflessa resta quella degli originali e del loro autore. Solo un po’ rifratta dalle lievi ondulazioni di un pelo d’acqua appena scosso. G.R.


HUBERT DORIGATTI


"Memphisto"

Three Saints Rec. (A) - 2018

Give me soul/Brothers/Memphisto/Find my way back home/Mr. Slowhand/Talk about/River city blues/Far away/Ding-a-ling/Last breath

Padre spirituale nella trinità che costituisce quella band altoatesina di estremo interesse e valore che è Bayou Side, Hubert Dorigatti, da solista o da leader del gruppo, possiede una visione ampia, personale, narrativa ed elegante del blues.
Già nel titolo, Memphisto ritrae e raccoglie, in un’efficace, sintetica forma contratta, l’incontro di due essenze, due radici fondanti e convergenti: geografia e iconografia. Memphis, vista come crocevia musicale quando non, addirittura, vera patria del blues; e Mephisto, figura che, nella tradizione più avvalorata e popolare, del blues è abituale riferimento, nonché fonte di profane, sinistre ispirazioni. E, dunque, cosa sarà Memphisto se non quella capitale degli inferi delle cui porte, il blues possiede le chiavi quale cittadino onorario?
All’amore, corrisposto, che nutre per questa musica e per la musica tradizionale americana tutta, Dorigatti affianca, poi, il proprio pregiato talento di poetico autore - un vero peccato non siano inclusi i testi! - firmando, ancora una volta, l’intero repertorio qui presente, tratteggiato usando i colori dell’introspezione, della memoria, dell’anima. Che questo disco sia un ideale tributo a Memphis, nella sostanza di ciò che questa città rappresenta, ben più che nella forma delle sue manifestazioni musicali maggiormente tipiche e note, è talvolta evidente come evidenti sono, talvolta, le atmosfere sulfuree a partire dall’introduttiva Give Me Soul o, con linee ancora più nette, nella traccia omonima. Il country di Brothers, spensierato racconto affettivo di antiche memorie giovanili, si intreccia, nei restanti brani, col ragtime, col folk, con le radici africane e con la ballata Mr. Slowhand apertamente dedicata, nei toni e nei contenuti, al Clapton più riflessivo e acustico. Fino a River City Blues, manifesto ortodosso dell’inquietudine, di quel nomadismo compulsivo che marca le distanze e che, come Big Bill Broonzy in una novella Key To The Highway, rivisita il concetto vagabondo del “gonna leave here running”.
La strumentazione è minimale; molti brani sono interpretati già solo con chitarra e voce o con l’intervento integrativo di occasionali ospiti come, da oltremanica, il virtuoso del banjo Dan Walsh, il percussionista Max Castlunger col suo calabash o Laura Willeit la cui voce cristallina già s’è affiancata a quella scabra e soulful di Dorigatti in precedenti e differenti lavori. Molto meno occasionale, invece, la caratterizzante presenza di Fabrizio Poggi che a Memphisto dona alquanto azzeccate e ben pertinenti coloriture d’ancia: senza la sua armonica, vibrante in una metà dei brani, questo disco non sarebbe stato lo stesso. G.R.


PAUL OSCHER


"Cool cat"

Blues Fidelity Rec. (USA) - 2018

Money makin' woman/Blues and trouble/Hide out baby/Work that stuff/Rollin' and tunblin'/Cool cat (R&B) prologue/Cool cat (jazz quartet)/Mississippi poem/Ain't that a man (dedicated to Mr Cotton)/Dirty dealin' mama (feat. Miss Lavelle White)/On the edge (jazz quartet)/Poor man blues/Cool cat (R&B) long version

Ci sono artisti che restano indissolubilmente legati a una tradizione; perché lì è sempre stata la loro vita, perché lì sta ancora, perché a ciò paiono essersi consacrati. Paul Oscher è uno di quelli che non perseguono nuove strade, non si fanno isterici paladini di una, spesso malintesa, idea di modernità: semplicemente, sembrano seguire un comune destino che li vuole portatori eterni della testimonianza di un suono, di uno stile musicale che si fa, inevitabilmente, anche stile di vita.
E’ fatto notorio che Oscher abbia preso parte, in qualità di armonicista, alla Muddy Waters Band nella seconda metà degli anni ‘60. E’ pure noto che sia anche valente chitarrista, pianista, cantante e pregevole autore come, ancora una volta con questo disco, ama ricordarci. E tutto questo nel più puro rispetto di un sound rigorosamente tradizionale che, con Cool Cat, e malgrado qualche occasionale divagazione, non smette di ripetersi.
L’essere nativo di Los Angeles e l’essersi fatto, da qualche tempo, cittadino texano di Austin non l’ha per nulla allontanato dalle sue origini artistiche chicagoane e schiettamente downhome che emergono, chiare e limpide, in Work That Stuff, per esempio, come in un buon tre quarti dell’opera qui presente. Se i suoni sono famigliari, i testi, talvolta e sorprendendo, lo sono meno, pur rimanendo nel pieno rispetto di quella consuetudine lirica, sinistra e sulfurea, del blues. Uno degli esempi lo si può trarre proprio da Blues And Trouble…she gave me a voodoo doll/said that doll would make things right/ward off the evil spirits/keep me safe all through the night/but I lay down dreaming/and the demons begun to fight/one said ‘I got his soul’/the other said ‘I’ll take his life’…” (è di Mighty Mike Schermer la nervosa chitarra che si ascolta qui!). Altrove è, invece, la tradizione del più sagace double entendre a farsi strada, quella delle squisite, succulenti metafore erotiche sgranate, una a una, come in un carnale rosario, dalla voce verace di Miss Lavelle White in Dirty Dealin’ Mama, compiaciuto resoconto degli incontri extra casalinghi di una donna frustrata, raccontati così: “…I went down to see the butcher/he put my meat on the grill/I went down to see the dentist/because I like the way he drills/I went down to see the train man/’cause he lets me ride all night/I went down to see the preacher/’cause he makes me see the light/I went down to the gas station/you know that guy can really pump….” e via via fino all’orgoglioso, sfrontato invito rivolto al suo malcapitato uomo “…don’t you ask me where I’m goin’/and don’t you ask me where I’ve been…”! Tutta la poetica del blues si manifesta, poi, in Mississippi Poem che anticipa Ain’t That A Man, talkin’ blues mono accordo dedicato alla gigantesca figura di James Cotton.
Le deviazioni dalla via maestra, invece, Oscher se le concede prima passeggiando allegramente lungo Bourbon Street con l’iniziale ode neorleansiana Money Makin’ Woman, poi con l’omonimo Cool Cat, divertente filastrocca in due versioni (chiude il disco quella lunga, registrata negli studi di Chris “The Kid” Andersen) e, per finire, con l’inatteso hard bop di On The Edge. E, sarà mica da questo pezzo, unico e inatteso, che deriva quella copertina in odore di Blue Note Records? G.R.


RANDY McALLISTER and THE SCRAPPIEST BAND IN THE MOTHERLAND


"Triggers be trippin"

Reaction Rec. (USA) - 2018

In a flick of a bic/Since I met you baby/Beauty and ugly upside down (ode to Lizzie Velasquez)/Bring it on backbreaker/The yin and the yang/Batter up//Vacation in my mind/Math ain't workin'/Makeshift Molly/We can't be friends (if you don't like Jimmy Reed)

E’ un percorso tortuoso e singolare quello intrapreso, da Randy McAllister, con le sue ultime uscite: evoluzione di idee, da anni, in nuce. Se musicalmente, e fin dagli esordi dei tardi anni ‘90, s’è rivelato figlio legittimo di un blues texano verace e dal beat in linea con la vigorosa tradizione del Lone Star State, da subito s’è pure manifestato quale autore di pregio, dalla sagacia rara e immediatamente manifesta. Nel suo precedente Fistful Of Gumption, McAllister aveva osato parecchio, posando il suo sguardo su un vasto orizzonte, sia nella scrittura che nei riscontrabili amalgami stilistici. Questa meticcia originalità, sfidante le convenzioni, era sconfinata apertamente verso musiche che, lì ben più slegate dalla tradizione, si trovavano a divagare per ampi territori, affrontando perfino poliritmie e cambi di tempo.
Questo suo nuovo disco, invece, pare rappresentare il tentativo, piuttosto riuscito, di una sintesi; la summa del cammino compiuto fin qui, il punto d’equilibrio tra tensioni espressive contrapposte e complesse emerse soprattutto nell’ultimo periodo. Con Triggers Be Trippin ritorna, quindi, un po’ di tradizione che trova la sua massima rappresentazione nell’unica cover presente, quella Since I Met You Baby di Ivory Joe Hunter alla quale viene riservata un’inusuale rilettura downhome, efficacemente minimalista e acustica: chitarra, armonica e voce. E nel suo rilassato incedere, questo brano tradisce anche un’altra novità che il McAllister, poliedrico talento notoriamente quadrifronte (cantante, autore, batterista e armonicista) introduce in pista: il suo abbandono, quasi totale, della batteria, per la consacrazione definitiva all’armonica, oltre che, come immaginabile, all’abituale crudo canto. Le sue ance, ben instradate negli anni ‘80 dalle dritte del misconosciuto maestro Earring George Mayweather, definiscono non tanto i contorni di un virtuoso quanto, assai meglio, quelli di un efficacissimo interprete di questo piccolo strumento che, tanto nella sua occasionale manifestazione acustica quanto in quella più frequentemente amplificata, arricchisce con sapienza e con un gustoso drive urbano i vari pezzi.
Occore dir pure che McAllister, in questa nuova uscita, e rispetto alla precedente, rinnova pressoché in tutto la sua band, ma lo fa sapendo sempre come circondarsi di ottimi musicisti. Esempio più evidente è il versatile chitarrista Brandon Hudspeth. Illustre sconosciuto sebbene ampiamente allenato nelle palestre di molti nomi più o meno noti del sud-ovest, ha Albert e Freddie King nelle corde quando attacca, con sudista energia, Bring It On Backbreaker. Il Texas più vivace riemerge di tanto in tanto, per esempio con Batter Up, uno dei tre episodi in cui McAllister si risiede dietro i tamburi dando prova di essere sempre il gran padrone delle pelli, degli accenti e dello shuffle che da essi scaturisce vigoroso. Ma attenzione: anche questo Triggers Be Trippin è difficile da ricondurre a un genere unico, specifico e netto. Anche nei momenti dove concede l’illusione di aver intravisto uno stile definito, ecco che arriva la sorpresa, la mutazione repentina dello scenario: blues, soul, roots e oltre. Ciò che tiene tutto insieme è la profonda creatività: nello storytelling, nello sguardo acuto sul mondo, nei giochi di parole, ma soprattutto nei ricercati arrangiamenti che rendono labile e sfumato ogni confine stilistico. G.R.


LAURIE JANE & THE 45's


"Late last night - Elixir of Sara Martin"

Down In The Alley  Rec. (USA) - 2018

Late last night/Achin' hearted/Blind man/Strange lovin' blues/Sugar/My man/Joe Turner/Can't find nobody to do like my daddy do/Pleading blues/Atlanta blues/I'm gonna be a lovin' old soul/'T ain't nobody's bus'ness if I do

Di tanto in tanto, jazzmen e bluesmen sono stati oggetto di opportuno e ossequioso tributo nonché di riproposizione del proprio repertorio da parte di altri artisti che, di loro, si sono fatti portavoce e interpreti. A memoria mia, però, non mi pare di ricordare nessuno che avesse mai preso in considerazione la figura di Sara Martin. Da popolare canzonettista del cabaret nero e attrazione del circuito T.O.B.A., passò ben presto a farsi esuberante interprete di quel classic blues che annoverava, tra i suoi più illustri e dominanti esponenti, Ma Rainey e Bessie Smith. Con tratti simili a quelli di una Ethel Waters ante litteram, incise molto per la gloriosa Okeh e si accompagnò spesso a personaggi come Fats Waller, King Oliver o al chitarrista Sylvester Weaver tanto che, a ben guardare, Sara Martin, cantante e autrice, avrebbe probabilmente meritato qualcosa in più di una semplice nota a piè pagina nella storia del blues. Il suo registro squillante, talora drammatico, talaltra scanzonato e teatrale, di quella teatralità che reca appresso i riconoscibili segni del vaudeville, condotto sul filo, sempre teso, di un vibrato metallico dal pieno, sicuro controllo viene omaggiato, in modo francamente inatteso, originale ed efficace, da Laurie Jane & The 45's.
Come Sara Martin originari di Louisville, Kentuky, nel cogliere l’idea di ricordare questa loro illustre concittadina, Laurie Jane e la sua band la reinventano, in realtà, alla loro maniera. Chi li conosce sa che il loro terreno abituale è formato da quelle zolle di blues dal variopinto humus regionale, ma sempre omogeneizzato da nette striature fifties (in ciò, il loro precedente Midnight Jubilee, disco che ha aperto il 2018, ne è un eloquente esempio). L’operazione rievocativa di Late Last Night si realizza, qui, con un doppio taglio: vi troviamo, infatti, tanto una radicale rilettura di alcune pagine del repertorio della Martin, rivedute attraverso quel filtro stilistico più affine ai 45’s, quanto una riproposizione fedele, se vogliamo anche un po’ caricaturale ma comunque ben riuscita di altre. Tra i brani assimilabili al primo e prevalente taglio, spiccano l’iniziale omonimo brano, rivisitato con una deliziosa vena country-swing, Blind Man dove al suono antico della cornetta si affianca il contrasto di una chitarra rock’n’roll e la personale, evocativa revisione di My Man passata nel setaccio di percussioni, chitarra acustica (formato slide) e fiati. E parlando di chitarre, ce n’è addirittura una che ricorda niente meno che gli Allman Brothers in quell’orchestrale con cambi di tempo che è Joe Turner. Il secondo, minoritario taglio, invece, comprende solo tre brani, tutti ascrivibili alla Martin autrice: Pleading Blues, l’intrigante Strange Lovin’ Blues e Atlanta Blues. Registrati al Guitar Emporium di Louisville, riproducono in modo credibile e con una strumentazione ridotta rispetto al resto del disco, nel suono e negli artifici da antica registrazione, l’atmosfera dell’epoca.
Di fatto, e al netto di questi ultimi tre brani, invece di catturare e banalmente riproporre le sfumature di una musica vecchia di cent’anni, Laurie Jane & The 45’s tentano intelligentemente, con Sara Martin, un’operazione analoga a quella svolta, con il blues americano, dalle band inglesi negli anni ‘60: portare all’attenzione di un pubblico più vasto un repertorio a molti sconosciuto e qui riveduto e corretto. Operazione che mantiene, peraltro, grazie alla voce naturalmente classica di Laurie Jane, una sua cristallina coerenza filologica. G.R.


THE MAGNIFICENT TAPE BAND


"The subtle art of distraction"

ATA Rec. (UK) - 2018

Let the church say/Danger/When I saw you/Requiem/Heading towards catastrophe/Not that kind of woman/Black tiger/Pantomime

E’ quella di Rachel Modest (che cita Dusty Springfield e DeeDee Warwick come prime ispirazioni) la singolare voce con la quale fare i conti, scorrendo le tracce di questo incantevole e, a tratti, suggestivo The Subtle Art Of Distraction; disco che costituisce, senza dubbio, la più seducente tra le produzioni targate ATA, nonché una delle più personali di tutto lo scenario contemporaneo.
Contralto dai cromatismi scuri, torbido e viscoso, che ricorda la densa bruma di un autunno imminente, lo strumento della Modest sa aprirsi improvvisamente a voluminosi falsetti di drammatica, chiaroscurale, travolgente intensità. Sebbene l’ascolto di questo disco riporti alla mente vivi ricordi delle tipiche atmosfere dei ’70, di The Temptations, The Delfonics, The Dramatics, elementi di soul sinfonico a-là Isaac Hayes, il risultato globale, alla prima un po’ straniante, contiene anche sorprendenti, talvolta massicci rimandi a una vocalità di estrazione gospel che trova, per esempio, nell’iniziale Let The Church Say quella massima rappresentazione la cui profondità emotiva, focalizzata nel crescendo lirico tipicamente corale del refrain evidenzia, tra le righe, echi dal celeberrimo Amazing Grace.
Il contesto del disco sembra studiato apposta per permettere alla Modest di esplorare tutte le proprie risorse vocali i cui rimandi alle citate Springfield e Warwick, nomi ai quali aggiungerei quello di Roberta Flack, mai risultano così evidenti come nella sognante, notturna When I Saw You, brano dove pure il vivo senso del bozzetto, dello scatto istantaneo, si manifesta nella sua compiuta rotondità ('….when I saw you late last night/eyes reflecting pale moonlight….'). Ed è quello stesso senso del dipinto bruciante, istintivo che riemerge, in tutta la sua accorata eloquenza, nell’intensa, trionfante Not That Kind Of Woman. E non ci si lasci sviare quando la Modest, tra le pieghe del sottile groove di Danger, ricorda il piglio felino di Skin perché, sul finire, tutto ritorna ‘a casa’ col sinuoso funky-soul Pantomime.
Siamo nei territori di quel ‘soul neoclassico’ – e, qui, mi invento un’ulteriore definizione di genere volendo indicare, con essa, tutta quella schiera di giovani e/o nuovi artisti/etichette soul-oriented che, da Sharon Jones/Daptone in giù, affollano da qualche anno lo scenario musicale – in origine frequentati tanto da onesti quanto da astuti individui, che vanno via via sempre più popolandosi. A questo fenomeno, l’Inghilterra pure sta dando un proprio non secondario contributo tanto che, la ATA Records, di base a Leeds, annovera già nel proprio catalogo, titoli che percorrono, con un taglio più o meno personale, questi stessi sentieri. E The Subtle Art Of Distraction scende, di diritto, per queste calle. G.R.


LINO MUOIO


"Mandolin blues - Acoustic party"

Autoprodotto (I) - 2018

Let's ease our mind/My better days/Roosevelt stomp/Wise enough/Do it right/N.C.L.M./Sad today/Peace of mind/I can't stand/Footpath to town/Shelter/Good times coming/It's up to you/Tomorrow/She's so spicy

Chi avrebbe mai detto che un giorno, in Italia, ci sarebbe stato un artista blues che si sarebbe dedicato, “anema e core”, al mandolino. E chi avrebbe mai immaginato che sarebbe stato un musicista i cui esordi (come chitarrista, in verità) hanno trovato la loro primigenia mossa nell’inseguire le orme di Angus Young o altri eroi delle sei corde, ma sempre quelli dalla scorza “hard”. Forse nessuno! Ma se qualcuno avesse, comunque, osato lanciarsi in un tale volo di fantasia, sono pronto a scommettere che questo artista del mandolino l’avrebbe immaginato napoletano: e, nel farlo, avrebbe visto giusto. Perché Lino Muoio quello è! Napoletano per nascita, cultura e tradizioni, dopo aver militato in varie formazioni, prima tra tutte, quella dei Blue Stuff di Mario Insenga, da alcuni anni si è dedicato, “anema e core” appunto, al mandolino.
The Acoustic Party è l’ultimo episodio di quella che potremmo definire, almeno per il momento, una trilogia dedicata a questo strumento. Trilogia che, iniziata nel 2012 con Mandolin Blues, ha visto una sua seconda puntata con The Piano Sessions (disco cui ho dedicato, su questo sito, una specifica intervista-recensione) nella quale veniva esplorato, in maniera esaustiva e originale, il binomio piano-mandolino. Con The Acoustic Party, Lino Muoio fa ancora un passo avanti e ci presenta il mandolino calandolo, questa volta, in contesti sempre acustici, ma stilisticamente differenti e non necessariamente omogenei. Il termine “Party”, in questo senso, non credo sia casuale e può essere, quale chiave interpretativa dell’opera, declinato in due differenti modi: “party” come “festa” e/o “party” come “partito”? Entrambi; perché entrambi coerenti! Il concetto di “festa” richiama alla mente l’idea di gioia, divertimento, baldoria, convivialità ma, soprattutto, di un raduno di persone amiche, complici e affini, senza le quali divertimento e compartecipazione non potrebbero esistere. In questo disco, per esempio, sono proprio tanti gli amici artisti chiamati a raccolta per partecipare alla sua realizzazione: Veronica Sbergia, Max De Bernardi, Paolo Bonfanti, Francesco Piu, Marco Pandolfi, Max Prandi, Stefano Tavernese e altri ancora. Il termine “partito”, invece, richiama sempre l’idea del radunar persone ma, questa volta, sulla base comune di un’ideologia o di una visione politica condivisa. Qui, la politica non c’entra, ma la condivisione, sì. Infatti, tutti gli artisti che hanno preso parte al disco, sono accomunati dalla loro assoluta o quantomeno prevalente, e comunque manifesta, natura o propensione acustica.
Quest’ultimo assunto, se vogliamo, è un po’ meno veritiero per Paolo Bonfanti che, sebbene non abbia mai disdegnato occasionali sconfinamenti nel regno dell’unplugged, è sempre stato tendenzialmente un chitarrista elettrico. Ma qui, nella propria acustica manifestazione, si produce in uno dei brani più brillanti dell’intera raccolta: facendo leva proprio sul titolo, Do It Right ironizza, con gustoso senso dello scherzo, sull’ambiguità, tutta anglofona, dei significati, letterali e metaforici, dei termini “left” e “right”. Lo strumentale N.C.L.M., quasi a fare da spartiacque, annuncia l’arrivo di quella parte centrale del disco dove atmosfere più intimiste e riflessive sopraggiungono ai sensi dividendo, astrattamente, questa raccolta in quelle due parti, iniziale e finale, specularmente simmetriche e pervase, sebbene con modalità differenti, da richiami verso i suoni più antichi del ragtime e del blues classico. La drammatica Sad Today, che apre quest’ideale parte di mezzo dell’opera sulle cupe vibrazioni delle corde, vocali e strumentali, di Max Prandi, ne è il più chiaro esempio. Così come gli accenti di veemente gospel di Peace Of Mind o i toni etnici di Footpath To Town.
Solo sul finire, con originalità, ricercatezza di soluzioni e arrangiamenti, si torna là, con un moto a spirale, verso quei suoni antichi, quasi nello stesso punto dove il viaggio era cominciato. Quasi, però; con appena un lieve scarto del traguardo. G.R.


BUDDY GUY


"The blues is alive and well"

Silvertone Rec. (Usa) - 2018

A few good years/Guilty as charged/Cognac/The blues is alive and well/Bad day/Blue no more/Whiskey for sale/You did the crime/Old fashioned/When my day comes/Nine below zero/Ooh daddy/Somebody up there/End of the line/Milking muther for ya

La copertina di questo disco sintetizza mirabilmente e con un pizzico di beffarda, scanzonata ironia, l’idea dell’andata e del ritorno; di quel viaggio che, stanti i natali del nostro Buddy, iniziato proprio a Lettsworth, Louisiana, si avvia, per squisite ragioni anagrafiche, verso il suo fisiologico epilogo. Impossibile, dunque, ignorare l’ultima fatica di uno tra gli ultimi sopravvissuti della grande epopea del blues elettrico del dopoguerra. E, a dispetto di questo suo personale viaggio durato, a oggi, più di ottant’anni, il sostantivo “fatica” suona quasi come uno sgarbo verbale considerato che, ad ascoltarne il risultato, la realizzazione di questo disco sembra stata tutt’altro che faticosa e, tutt’altro che affaticato lui.
Certo, il vecchio Buddy s’è fatto aiutare: l’ottima penna di Tom Hambridge, batterista, gli ha scritto i testi (oltre a curare gli arrangiamenti). E una manciata di vecchi amici, per lo più dai trascorsi rockettoni, gli ha dato manforte. Jeff Beck, Keith Richards - ai quali è da attribuire la responsabilità del netto contrasto cromatico derivante dall’incrocio delle rispettive chitarre: indolente quella del secondo; ipercinetica, l’altra - e Mick Jagger, qui soltanto efficace armonicista. Ma il risultato è quello di un gran disco di blues come, da lui, è lecito aspettarsi e, mi verrebbe da dire, financo pretendere.
"....I’ve been mighty lucky/I’ve travelled everywhere/makin’ tons of money/spending like I don’t care/a few good years/a few good years is all I need right now…."...se, ascoltando il tono sinistro di questa retrospettica ma, prospetticamente, ben augurale e introduttiva A Few Good Years, si potrebbe immaginare un vago ritorno alle atmosfere stranianti del clamoroso Sweet Tea, il resto del programma, salvo qualche lieve sconfinamento nel modernariato (Whiskey For Sale), si muove, con sferragliante energia, sui saldi binari della più genuina tradizione. Ancora una volta e come sempre, è la chitarra di Guy che si fa, a un tempo,  aratro che traccia il solco, deciso e profondo, e spada che, nervosa e sferzante, lo difende con fierezza. Insieme a lui, schierati e minacciosi sono il tastierista Kevin McKendree, il bassista Willie Weeks e i Muscle Shoals Horns.
Non stupisce – e questo disco ne rinnova la certezza – che lo stile di Guy abbia influenzato, negli anni, schiere di chitarristi, magari di appartenenza più marcatamente rock, da Jimi Hendrix a Stevie Ray Vaughn. Qui però, è Guy stesso a tradire, in un paio di occasioni, se non proprio le sue origini chitarristiche, una sua fonte primigenia di ispirazione: Blue No More, duetto con James Bay ed End Of The Line infatti, si muovono su uno stile che, sebbene con ditate più feline e graffianti, porta in palmo di mano le vellutate rotondità di B.B. King. Talvolta, invece, pare che la Luisiana, terra d’origine di Guy, non sia tanto quella frugale e campagnola, quanto l’occulta landa degli incantesimi: magica e impenetrabile. Allora, quasi da padrone dei misteri, demone o stregone che sia, Guy gioca col tema della morte che, variamente declinato, è qui spesso ricorrente, riaffiorando con cupe, sinistre atmosfere, dalle acque dense di When My Day Comes, Somebody Up There o dalla già altrimenti menzionata End Of The Line. E se Nine Below Zero segna il ritorno ai tempi spesi alla Chess col vecchio Muddy, il culmine lo tocchiamo con il torrido slow You Did The Crime.  
Dimentichiamoci pure le sue gigionesche clownerie e il Buddy Guy istrione: qui, con indomito vigore, ritorna schietto, a meno di una costante - il tempo trascorso - quasi come agli albori. G.R.


FANTASTIC NEGRITO


"Please don't be dead"

Cooking Vinyl Rec. (Usa) - 2018

Plastic hamburgers/Bad guy necessity/A letter to fear/A boy named Andrew/Transgender biscuits/The suit that won't come off/Cold November street/The duffler/Dark windows/Never give up/Bullshit anthem/Dark windows*/Bad guy necessity*/Cold November street*/The suit that won't come off*/The duffler*

*  versioni alternative acustiche presenti nella sola edizione Deluxe

Come fare a spiegare, a chi ha in testa solamente il rassicurante perimetro delle dodici battute e contempla lo shuffle come unica possibile alternativa allo slow (o, scegliete voi l’ordine, viceversa), che il blues, genere, già in origine, un po’ meticcio è, sì, una forma musicale, peraltro riconosciuta dall’accademia ufficiale come autenticamente tale solo in alcune sue contate manifestazioni - in altre, meno - , ma che non di sola forma vive il blues? Prendiamo questo disco, per esempio: del blues, inteso come codificata forma metrica, non ha apparentemente nulla. Allora vogliamo dire, in maniera tanto indefinita da essere più politicamente corretta, inventandoci l’ennesima inutile etichetta, che questo è un disco di “black roots music”, qualsiasi cosa voglia intendere questa espressione, tanto comoda quanto concettualmente difettosa? E così sia, se si preferisce…..ma quanto blues si avverte, invece, tra queste tracce, a cominciare, per dire, da Bad Guy Necessity e The Suit That Won’t Come Off dove il tono e le note della chitarra, credo, non dispiacerebbero affatto a Buddy Guy o Freddie King!! Dunque, mi sentirei di invitare i puristi a non puntare istericamente i piedi e tentare almeno un primo, sommesso ascolto.
Vero che, quando si parla di “nuovo” o di “originale”, bisogna muoversi sempre un po’ con accortezza e muniti dei proverbiali piedi di piombo. Ma, il punto dirimente è cosa voglio fare nella vita. Se voglio “fare” l’originale giocando facile, posso mescolare, più o meno a caso i generi (come i colori) e presentarmi al mondo, ad attirar l’attenzione, come un novello Arlecchino. Ma se voglio “essere” originale, allora ho bisogno di creare qualcosa di nuovo partendo, magari, dalle radici antiche per cercare la giusta terra dove piantar le nuove. Non sono così pochi, oggi, gli artisti che, nell’ambito della musica di derivazione “black” apportano, anche con nuovi suoni, freschezza e modernità. Se però, nella maggior parte dei casi, questi aspetti qualitativi si limitano alla semplice funzione di artificiosi stratagemmi estetici che trasformano, appunto, in Arlecchino il proprio interprete, con Fantastic Negrito, al secolo Xavier Dphrepaulezz, la storia è diversa. Qui, ci sono intelligenza e contenuti; nonché il tentativo, per conto mio, assai ben riuscito di creare qualcosa di veramente originale (non nuovo, ma originale, sì!) partendo dalle molte influenze che possiamo riconoscere tra le tracce. C’è un po’ di black rock alla Living Colour che convive, nell’iniziale Plastic Hamburgers, con lo scandire regolare e ossessivo delle antiche work-songs; c’è A Cold November Day che pare l’innesto felice del mesto swingare di St. James Infirmary su qualcosa che, suonato da Leadbelly, ricorda a House Of The Risin’ Sun. C’è l’eredità di Prince mediata dai Led Zeppelin in The Duffler; Chris Cornell che incontra Bill Whiters in Dark Windows, la rabbiosa Transgender Biscuits fino al proto-funk alla James Brown di Bullshit Anthem che, al modo di un laico mantra, ripete la litania “...take this bullshit, turn it into goodshit...”.
Fantastic Negrito diventa, così, il cantore delle moltitudini solitarie e mute, delle angosce contemporanee, con la generosa offerta di una terra promessa ancora di là da venire. Una voce che si erge dalle periferie dove l’umanità misera dei senza voce né corpo, si consuma rapida in vortici di varia perdizione. E ciò che sorprende è che tutto questo vorticar di influenze trova un suo ben definito punto di equilibrio dando vita a qualcosa che mai evoca il sentore - o, peggio, il sospetto - di qualcosa di forzato o innaturale. E credo proprio che, tutto ciò, a Son House non dispiacerebbe; così come già a Bobby Rush. G.R.


BILLY PRICE


"Reckoning"

Vizz Tone Rec. (Usa) - 2018

39 steps/Dreamer/Reckoning/No time/I love you more than words can say/I keep holding on/One and one/Get your lie straight/Never be fooled again/Expert witness/Love ballad/Syntetic world/Your love stays with me

Scaturisce dalla penna di Jim Britton, oscuro tastierista e autore della Pennsylvania, questo claustrofobico e liberatorio 39 Steps, trionfo di tastiere in salsa shuffle e coro gospel, nonché brano più intrigante, tra quelli inediti contenuti in quest’ultima, preziosa raccolta di Billy Price. Ma è soltanto una singolare coincidenza che il titolo di una vecchia pellicola cinematografica faccia il paio col titolo di questo seducente brano d’apertura: I 39 scalini di Hitchcock con quelli della prima traccia di un cd, tutto giocato sull’ambiguità del termine inglese “step”.
La visionaria, immaginifica, dettagliata descrizione di un love affair presto trasformatosi in soffocante gabbia rivisita, con schietta autenticità, l’abusato ma sempiterno tema del rapporto tra i sessi, attraverso la reiterata, ossessiva metafora dei passi (o scalini, appunto): quelli che separano - orizzontalmente o verticalmente non si sa - il protagonista del racconto da quella porta, assurta a simbolo della raggiunta emancipazione da un partner rivelatosi, ben presto, oppressivo. “...I start to count the steps I would take, I got 39 steps to my freedom, lovin’ you was a big mistake!….I need twelve to get to that suitcase that I packed up three weeks before and then six to get through the kitchen and other eight to make it out of that door...”.
Meritoriamente noto come verace interprete di soul, Price mette, qui, definitivamente nel sacco tutti i frutti di una personale e lunga semina, iniziata negli anni ‘70 e recentemente coronata con un Blues Music Award, quello ottenuto per This Time For Real, disco inciso a quattro mani e due ugole, con il compianto Otis Clay. Questo suo ultimo Reckoning si muove su un alternarsi di umori che traggono linfa da alcune pagine storiche (è il caso, per esempio, del Dreamer di Bobby Bland, ora magistralmente ripreso su una trama vocale dai toni scuri e sinistri) e altre meno note anche se ripescate dai repertori di certi mammasantissima come JJ Cale, Denise Lasalle, Eddie Floyd o Swamp Dogg. E questo percorso viene completato, a intervalli, da un misurato numero di pezzi originali come il citato brano iniziale e un paio d’altri a firma di Price stesso e/o del suo abituale partner europeo, il chitarrista francese Fred Chapellier.
Prodotto, registrato e arrangiato, come ormai tanti altri dischi dai recenti natali, negli studi di Chris “The Kid” Andersen in quel di San Josè, California, Reckoning si giova della complice partecipazione di una super band. Ad affiancare Andersen che, oltre a ricoprire i ruoli di cui sopra, incarna anche quello di chitarrista, troviamo l’eterno tasterista di Robert Cray, Jim Pugh, il batterista di Rick Estrin, Alex Pettersen, Rusty Zinn, il gruppo gospel dei Sons Of The Soul Revivers, il leggendario bassista Jerry Jemmott (già in forze con King Curtis, Aretha Franklin, Gregg Allman) e una corposa sezione fiati che include anche il sapiente sax di Nancy Wright.
Sebbene funk e ritmo siano presenti in buone dosi, il tenore di Price, talvolta teso e acidulo, si ammorbidisce e trova la sua luce migliore laddove il ritmo rallenta come nell’originale One And One, nel lieve Philly Sound di Love Ballad, nella ballata in puro stile Muscle Shoals Your Love Stays With Me o ancora nella sinuosa e moderna Never Be Fooled Again. E la versione di I Love You More Than Words Can Say, potrebbe essere accostata, senza tema di sfregio, alla lettura resa, un tempo, da Otis Redding e che, da sola, fa guadagnare, di diritto a Price, il meritato appellativo di soul man! G.R.


WALTER 'WOLFMAN' WASHINGTON


"My future is my past"

Anti Rec. (Usa) - 2018

Lost mind/Even now (feat. Irma Thomas)/What a difference a day makes/Save your love for me/I don't want to be a lone ranger/Steal away/She's everything to me/I cried my last tear/I just dropped by to say hello/Are you the lady?

Il solo titolo, rivela già tutto il significato dell’opera: una specie di ritorno al futuro attraverso un tuffo nel passato.
Nessuno, se non forse qualche suo intimo, potrà mai vantare il privilegio di aver ascoltato Walter Washington suonare, solo, alla chitarra. Adusi, come siamo, al funk birbante dei suoi Roadmasters, ritrovarlo abbandonato a sé stesso, in una straniante cornice, disadorna e crepuscolare, come quella della rilettura iniziale, acustica e solitaria, del Percy Mayfield di Lost Mind lascia, invero, piacevolmente straniti. Washington si lancia, con My Future Is My Past, in una prolungata esplorazione del proprio crooning calandolo in rarefatte atmosfere sonore. E lo fa, partendo proprio con Mayfield, quasi a voler calar subito tutte quante le carte servite, dal destino, in mano a un baritono pastoso, risonante, difficilmente languido. La propria dizione, un tempo anche biascicata, si veste di un ben più definito, diffuso nitore, certamente aiutata da un repertorio, pensoso e intimista, che concede tempo all’articolazione della frase. Non sarà un caso che il disco prenda le mosse da una pagina, celeberrima, di un songbook già omaggiato da Johnny Adams (cantante di cui Washington fu lungamente chitarrista) in un suo prezioso disco, Walking On A Tightrope. Col secondo brano, Even Now, anche questo già riletto da Adams, entrano in scena i musicisti, tutti scelti dal produttore Ben Ellman dei Galactic, e tutti gravitanti nell’orbita della scena jazz e R&B di New Orleans. Per dire: Jon Cleary, Ivan Neville, Mike Dillon, Dave Torkanowsky. E, in questo stesso brano, si consuma l’unico, prezioso duetto del disco, quello con una radiosa, inappuntabile Irma Thomas.
Ci sono, poi, episodi dove Washington addirittura abbandona la chitarra per dedicarsi esclusivamente al canto. Uno dei migliori esempi, in tal senso, è What A Difference A Day Makes dove l’accompagnamento minimalista di contrabbasso e Fender Rhodes lascia protagonista, quasi assoluto, l’insinuante swing del canto. Deliziosamente inusuale, per velocità e approccio, la rivisitazione sorniona, ironica del Jimmy Hughes di Steal Away, con una chitarra che si fa apertamente blues tra gli acuti di un falsetto a tratti strozzato. Un meraviglioso piano New Orleans trova spazio, con Jon Cleary, in I Cried My Last Tear e, dopo il tradizionale after hours di I Just Dropped By To Say Hello, il disco si chiude sui morbidi accordi di chitarra dell’autografa Are You The Lady.
L’uomo lupo sorprende e spiazza: questo non è, certo, il disco che ci si potrebbe attendere da lui; ma, proprio per questo, ci restituisce un Washington avvolto dai primi raggi di una luce delicata e nuova. E a poco serve l’esercizio sterile del domandarsi se questo debba, o no, considerarsi a tutti gli effetti un disco di jazz. G.R.


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