Lino Muoio - The Piano Sessions - Macallè Blues

Macallé Blues
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Lino Muoio - The Piano Sessions

Recensioni

Il disco raccontato da...

Lino Muoio

LINO MUOIO

"Mandolin blues: the piano sessions"

SiFaRe Rec. (I) - 2017

Last chance blues/Dayjob/Help yourself/Falling star/Salty dog/Maggie/Put you on the shelf/Whistling the blues/The fool I used to be/Bald man's stomp/Hardheaded woman/Someday
da sinistra: Francesco "Sleepy" Miele, Lino Muoio e Franco Donatone (foto: RicPic)

Appassionatosi alla chitarra (e al blues) da adolescente, ispirato inizialmente da alcuni grandi chitarristi rock come Angus Young, Jimmy Page, Jeff Beck e Van Halen, inizia da autodidatta lo studio dello strumento. Entrato a far parte del gruppo napoletano dei Blue Stuff, capitanato da Mario "Blue Train" Insenga, coi quali mantiene ancora oggi rapporti di collaborazione, si manifesta come solista, nel 2008, con l'album Blues On Me, dimostrando di essere uno dei chitarristi e autori più interessanti del panorama blues italiano. Nel 2012, spiazza tutti dedicandosi al mandolino e incidendo il primo progetto dedicato a questo strumento: Mandolin Blues. Oggi, con una copertina che ricorda i fumetti ispirati al blues di Robert Crumb, esce con un secondo progetto dedicato sempre al mandolino intitolato Mandolin Blues: The Piano Sessions. Macallè Blues l’ha incontrato per fare quattro chiacchiere proprio su questo nuovo disco...

Macallè Blues: prima di parlare di questo tuo nuovo disco, comincerei spendendo due parole su di te e sul tuo personale percorso artistico. Tu nasci come chitarrista e, come tale, hai collaborato, nel tempo, con diversi artisti e gruppi, militando a lungo con i Blue Stuff di Mario Insenga, prima di scegliere la strada solista che ti ha condotto a incidere, nel 2008, il tuo disco d’esordio "Blues on me”. Successivamente, ti sei dedicato al mandolino, incidendo, nel 2012 il sorprendente “Mandolin Blues”. Che cosa ti ha portato a dedicarti sempre di più a questo singolare e poco sfruttato strumento?
Lino Muoio: nasco come chitarrista e mi formo negli anni ’90 come autodidatta studiando prima il rock classico (Led Zeppelin, Deep Purple, AC/DC) poi quello strumentale dell’epoca con i vari guitar heroes (Satriani, Vai, Van Halen..). Essendo un fan accanito di Angus Young ho cercato di capire da dove venisse quel suo fraseggio così istintivo e di pancia e, da lì, ho scoperto il Blues. Da quel momento in poi la mia è stata una continua ricerca delle radici più profonde del genere dove, però, ho capito l’insegnamento dei grandi, ovvero quello di non copiare un suono o uno stile, ma di cercare il “mio suono” ed il “mio stile”. Ancora oggi cerco e sperimento soluzioni che mi permettano di tradurre le idee di suono che ho in testa e, fortunatamente mi viene spesso riconosciuta un’originalità del suono, cosa che mi inorgoglisce molto.
Dal 2008 inizio a dedicarmi ai miei dischi, spinto dalla necessità interiore di scrivere e suonare del materiale che avesse a che fare con la mia vita e non quella di altri musicisti. L’uso del mandolino, come avrai intuito, nasce dal repertorio dei Blue Stuff che suonano blues cantato in napoletano, ed è lì che ho capito che una caratterizzazione del suono attraverso uno strumento tipico della mia cultura come il mandolino potesse essere una chiave vincente.
Mandolin Blues, nel 2012, è stato un disco fortemente voluto e cercato (ho studiato due anni il repertorio classico e i mandolinisti di blues, infatti oggi non di rado mi capita di fare workshop e seminari sull’argomento), registrato in maniera molto precisa (suonato tutto live tranne quache insert di ospiti), anche lì con una ricerca del suono che rispettasse la tradizione, ma con un pizzico di modernità.
MB: in America, il mandolino è stato uno strumento molto popolare nei primi decenni del ‘900, ma poco usato nel blues, se non in contesti un po’ particolari come quelli delle 'jug bands'. Anche in Italia, è stato un strumento caratteristico se pur spesso relegato a ruoli popolareschi e melodici. I due contesti, sebbene geograficamente e stilisticamente lontani, credo siano in qualche modo assimilabili, non solo in quanto accomunati dallo strumento stesso, ma anche per via della comune radice popolare che ne identificava carattere e utilizzo. E, dal punto di vista simbolico, è anche lo strumento che ha accomunato Italia e Stati Uniti creando un anello di congiunzione tra i due mondi…
LM: mi fa molto piacere che tu abbia colto l’essenza di tutto il mio lavoro, ovvero quella di “unire due sud”, quello degli Stati Uniti, da cui nasce il blues, e quello nostro da cui proviene il mandolino. E’, se permetti, una mia piccola ossessione che generalmente viene capita e riconosciuta all’estero mentre in Italia no. Ed è per questo che ti ringrazio per aver colto questo punto fondamentale. Il sud dell’Italia con il mandolino incontra il sud degli USA con il suo blues, su quello che è un substrato culturale comune al di là del formalismo musicale, ovvero la musica popolare.
MB: tra i musicisti americani che hanno contribuito a introdurre il mandolino nel blues, ce n’è uno in particolare che merita una menzione speciale: Yank Rachell. Al suo nome, più che a quello di altri come, per esempio, Johnny Young o Howard Armstrong, è indissolubilmente associata la riscoperta e l’utilizzo di questo strumento. Negli anni ‘60, proprio Yank Rachell incideva per la Delmark di Chicago, in compagnia di alcuni suoi storici compagni di strada come Sleepy John Estes, il disco della sua personale riscoperta. Quel disco si intitolava “Mandolin blues”, proprio come il tuo precedente e mi piace pensare che, in un certo senso, quel tuo titolo volesse essere, al netto delle differenze storiche e personali, la risposta speculare, mediterranea alla riscoperta di questo strumento...
LM: assolutamente sì. Yank è stato ed è tuttora una fonte di ispirazione per me. Ispirazione, torno a precisarlo, non vuol dire copia pedissequa di uno stile o di una tecnica, bensì “stimolo” a suonare il blues con uno strumento, diciamo, non convenzionale. Nel disco Mandolin Blues, oltre al chiaro richiamo del titolo c’è anche un brano, Harmony H35  che ho scritto per Rachell e racconta la storia di come mi sono innamorato del mandolino blues e di Yank tanto da cercare e comprare in America il suo stesso modello di mandolino, appunto un Harmony H35.
MB: veniamo, ora, a The Piano Sessions. In questo disco, che sembra la naturale evoluzione di Mandolin Blues, viene privilegiato il dialogo, l’interplay proprio tra mandolino e pianoforte in un contesto acustico che ricorre spesso a sonorità anni ‘20 e ‘30, ma spazia anche verso swing, ragtime, barellhouse, un pizzico di New Orleans e, ovviamente, il blues. Sentivi il bisogno di far muovere il mandolino su un contraltare solido e definito come quello di un pianoforte piuttosto che accostarlo, come più spesso è capitato, ad altri strumenti a corda?
LM: esatto, come avrai capito, l’evoluzione è una parte essenziale del mio percorso musicale. Con Piano Sessions ho voluto esplorare un territorio mai frequentato prima almeno a livello discografico, ovvero l’interplay tra il mandolino e il pianoforte.
Essendo appassionato di pianisti come Roosevelt Sykes, Memphis Slim, Albert Ammons ecc. ho voluto provare a far dialogare il mandolino con questo strumento per cercare di sfruttare potenzialità espressive diverse rispetto agli altri strumenti a corda come la più tradizionale chitarra.
MB: il mandolino assume qui, con piena dignità, una precisa veste solistica, ricoprendo un ruolo analogo a quello ricoperto dalla chitarra altrove. In un mondo ancora dominato da amplificatori e sei corde e stata una scelta coraggiosa e contro corrente...   
LM: come avrai capito, la mia è una ricerca e sono sinceramente appassionato e innamorato della musica e dei miei strumenti. Scelte del genere non sono ragionate, ma dettate dal cuore e dalla passione; al di là del fatto che possano piacere o no.
MB: il pianoforte è affidato a un pianista blues e jazz di talento e lungo corso come Mario Donatone anche lui, credo di poter dire, affine e, in qualche modo, famigliare a sonorità d’epoca e con una certa propensione alla ricerca. La sua scelta, forse, non è stata casuale…
LM: direi proprio di no. Mario è un pianista eccezionale con una grande cultura musicale che suona sì il jazz e il blues, ma con “la pancia” come si suol dire, non con la testa come molti suoi colleghi fanno. Per questo motivo, oltre alla grande stima reciproca, la sua scelta è stata non casuale.
MB: il piano costituisce, per sua natura, una presenza appariscente ma qui, nelle mani di Mario Donatone, diventa un partner che sa essere anche discreto concedendo al mandolino tutti i suoi necessari spazi in un contesto rigorosamente acustico….   
LM: Mario ha una caratteristica che a me piace molto. Oltre ad essere ovviamente un grande solista, quando è nella veste di side man o di partner riesce sempre a integrarsi senza prevaricare, rendendo anzi più semplice ed efficace il lavoro degli altri.
MB: anche in questo The Piano Sessions, tutti i brani sono originali. Un altro aspetto rilevante è che la scrittura degli stessi evidenzia una profonda conoscenza, non solo delle tematiche più tradizionalmente blues, ma anche della forma e del linguaggio loro propri….
LM: tutti i grandi musicisti che ho incontrato in oltre venticinque anni di musica mi hanno insegnato una cosa prima di tutte le altre: essere se stessi, nel bene e nel male. La scrittura di brani originali, assieme alla ricerca di un suono e uno stile personale non vuol dire altro che seguire questo insegnamento.
MB: in questo contesto, c’è un brano che si discosta un po’ dal resto, per attualità e tematica: è Dayjob, dove, anche con un pizzico di ironia viene affrontato il tema del lavoro…
LM: beh sì, per anni sono stato musicista professionista, poi con le varie crisi della musica in generale ho dovuto cercare qualcosa che mi facesse pagare almeno le bollette; anche se, alla fine, sono tornato a fare quello che realmente mi piace nella vita. Più che l’ironia il testo è uno sfogo verso chi, come sempre avviene in Italia, considera il musicista come un “hobbista” o “dopolavorista”. Ovviamente spesso è vero, ma in realtà in un sistema dove non ci sono tutele sociali per questa categoria (leggi sindacati, ordini ecc.) non tutti sono in grado di autosostenersi.
MB: mi ha colpito, poi, Maggie con la sua lieve, accennata citazione pianistica da “O paese d’’o sole”, quasi a richiamare il percorso geografico del mandolino, tra Napoli e gli States…
LM: la storia di come è nata Maggie la racconto spesso nei live. Devi sapere che essendo nato e cresciuto a Pozzuoli (Na), ho iniziato a suonare nei circoli ufficiali della base NATO di Bagnoli dove ho conosciuto tantissimi americani che mi hanno insegnato tanto. Con uno di questi sono rimasto in contatto dopo quasi trent'anni, si chiama Bob Green e spesso ci divertiamo a scrivere brani assieme. Maggie racconta la storia di una ragazza napoletana che si innamora di soldati americani che appena lasciano la base, lasciano lei. Fino a quando non interviene un baldo giovanotto “indigeno” che le dice : “Non ti preoccupare, io non me ne vado, sono di qui…e non mi piace nemmeno il mare!!!”
La citazione iniziale è un piccolo vezzo che intendeva richiamare la connessione tra Napoli e gli States come abbiamo già detto.
MB: e ancora la deliziosa, evocativa Fallin’ Star, quasi una blues ballad...
LM: questo è uno slow blues che ho scritto una notte, tornando da Ischia, dove suoniamo spesso, sul traghetto delle 02.30. Come in genere faccio mi metto fuori sul ponte e quella sera avevo bisogno di una stella cadente per esprimere un desiderio. La nota carina è che, mentre detta così sembra una cosa molto evocativa e poetica, in realtà il traghetto delle 02.30 è chiamato il traghetto dei “monnezzari”, perché trasporta i camion dell’immondizia a Pozzuoli per la discarica. Quindi, lo spirito del brano è poetico, ma diciamo che non si sentiva proprio il profumo del mare.
MB: con la sua naturale cifra vocale blues e l’ottima pronuncia Mario Donatone è l’interprete di tutti i brani; con estrema spontaneità e ben lontano da eccessi caricaturali, riesce a rendere ancora più internazionale The Piano Sessions...  
LM: sì, Mario ha un’ottima pronuncia e una grande voce; c’è poco da discutere su questo. In realtà dal vivo molti brani li canto io, ma almeno su questo esperimento non me la sono sentita di limitare, anzi ho voluto sfruttare a pieno il suo straordinario talento.
MB: a completare la band, il contrabbasso di Francesco Miele. Parlaci un po’ di lui e anche degli ospiti internazionali che hanno partecipato alla realizzazione del disco.
LM: Francesco “Sleepy” Miele è uno straordinario contrabbassista. Suoniamo assieme da circa quindici anni, prima coi Blue Stuff, ora nei vari progetti di Mandolin Blues. La sua caratteristica, a mio avviso unica, è la profonda conoscenza del blues e del rock & roll, cosa che in The Piano Sessions si sente molto, per il groove e il tempo “seduto” che riesce a dare, caratterizzando in maniera importante quasi tutti i brani. In più, se ascolti il brano Put You On The Shelf puoi notare la sua straordinaria capacità tecnica sullo slap, tipico dei contrabbassisti rockabilly anni ’50 (Sleepy conduce anche una rubrica su Facebook chiamata Rockabilly A Day) su cui ho voluto puntare nel disco proprio per evitare gli accompagnamenti jazzistici standard.
Ospiti importanti del disco sono Michael Supnick (tromba e trombone), musicista di lunga esperienza con Renzo Arbore e tanti altri e Clive Riche, grandissimo “fischiatore” che è riuscito a farmi realizzare un altro piccolo sogno. Mi sono chiesto : da quanti anni non si sente nel Blues italiano un brano interamente fischiato e non cantato? Non avendo trovato risposta ho fatto le mie ricerche ed individuato questo genio: Alex Moore e gli ho dedicato il brano!
MB: in futuro ci possiamo aspettare un nuovo capitolo dedicato al mandolino, questa volta magari in veste amplificata?
LM: sì certo, di progetti ce ne sono almeno tre in corso. Ti segnalo : Mandolin Blues – Acoustic Party dove ho invitato tantissimi amici conosciuti in tanti anni di blues sulla strada per suonare, ma soprattutto scrivere dei brani assieme. E hanno risposto in tanti. Ti cito Paolo Bonfanti, Max De Bernardi, Veronica Sbergia, Francesco Piu e moltissimi altri. E’ un disco in cui alzo decisamente l’asticella della qualità sia compositiva che creativa. Verrà molto probabilmente missato negli USA e sarà un specie di piccola festa per i dieci anni di Mandolin Blues.
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