Bobby Rush with Herb Powell - I ain't studdin' ya - Macallè Blues

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Bobby Rush with Herb Powell - I ain't studdin' ya

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Bobby Rush with Herb Powell

I AIN'T STUDDIN' YA - MY AMERICAN BLUES STORY

Hachette Books - 2021



Di tutta la possibile letteratura, l’autobiografia - c’è chi sostiene - sia esercizio mistificatorio e favolistico; potenzialmente viziato dalla restituzione distorta di un sé, trasfigurato a piacere e, talvolta, inconsciamente trasmigrante in narrazione fantastica, ideale. Ma un libro sulle gesta di un uomo divenuto, ancor vivo, leggenda, è quanto di più ghiotto e avvincente possa capitare di leggere in questi tempi sbandati; ancor più, se scritto di suo pugno.
Nelle vivide immagini e negli intriganti giochi di parole che fanno memorabili le sue canzoni, nell’abbracciare orgogliosamente il blues come espressione della cultura nera vivente, Bobby Rush è personaggio che, già da sé, è letteratura: popolare, fatta e finita. In qualsiasi sua manifestazione, vira con naturalezza e autenticità sull’aneddotica e, finanche, sull’epica. Ce lo dipingono così, e da decenni, le sue canzoni come le sue memorabili esibizioni live: veri e propri happening dove rivivono, concentrati nella sua persona, lunga e dinoccolata, il blues, il minstrel show, l'antica figura del root doctor. La commedia dell'esistenza tutta, vista con gli occhi di chi appartiene a un genere umano ancor memore delle privazioni e delle umiliazioni patite fino a non poi così tanti decenni or sono, in quell’America che si direbbe libera.
Più che quella di un qualsiasi rapper dei giorni nostri (figura che, senza l'influenza di Rush, forse non avremmo mai conosciuto, quantomeno per come la conosciamo ora) di cui è stato precursore, bisogna proprio leggere la storia di questo giovane uomo, oggi ultraottantenne a sua insaputa, che ha sagacemente ribattezzato la sua musica “folk funk”. E' lui il depositario vivente di quella tradizione popolare che, nelle sue migliori manifestazioni, sa esprimersi in una lingua peculiare che è vernacolo colorito e personalizzato ad arte, condito con scaltre arguzie casalinghe e ammiccanti occhiolini.
La storia di Rush non è facile da delineare con certezza, soprattutto nelle sue coordinate temporali e nei relativi accadimenti; sessions di registrazione, incontri, date, quasi fossero in forma liquida, hanno cambiato connotati nel corso di anni e ripetuti racconti. Talvolta è stato lo stesso Rush a confonderne le acque, come qui fa, pure. Tanto che chiunque, da questa lettura, sperasse di avere una qualche risposta definitiva, anche banalmente sulla sua data di nascita, dovrà abbandonare ogni velleità in tal senso. Persino la confusione creata su questo semplice aspetto biografico, si trasforma in vanto leggendo affermazioni come “Ho iniziato a mentire sulla mia età quando avevo dodici anni, facendoli diventare quindici, o più, dall'oggi al domani; e non ho mai avuto ripensamenti a riguardo”.
Nato Emmett Ellis Jr. a Homer in Louisiana, figlio mezzosangue di un umile contadino e devoto uomo di chiesa la cui memoria continua, ancor oggi, a ispirarlo, scoperta da bambino l'emozione della musica, scoprì ben presto, anche il particolare talento per la metamorfosi; talento di cui, assieme al prematuro impiego di baffi posticci, il cambiar nome, è stata una delle ulteriori macroscopiche manifestazioni. Così, strizzando un occhio alla semplicità si ribattezza, alla buona, Bobby; strizzando l'altro alla sua volatile, sfuggente natura mercuriale, Rush. Attraverso un immaginoso processo di eliminazione e decodifica operata dal già abile paroliere che è, ecco creata la sua nuova, evocativa identità. Queste le premesse iniziali a tutto ciò che è seguito nei decenni successivi e che qui viene descritto, aggiungendo spesso nuova vita ad avvenimenti noti, che Rush rivitalizza fornendo loro dettagli e aneddoti raramente prima condivisi. Così possiamo seguirlo nei suoi esordi, esibirsi in giro per il sud con quell'Elmore James tanto idolatrato, assorbendo influenze da fonti le più diverse e variegate come Big Joe Turner, Louis Jordan o T-Bone Walker, la cui teatralità attletica lo ispirerà nello sviluppo della propria. O ancora, Muddy Waters, Little Walter e Sonny Boy Williamson.
Dopo gli scali intermedi a Memphis e St. Louis, è la volta di Chicago, dove si trasferisce nei primi anni '50 inserendosi nel fiorente circuito blues del locale South Side. Sono gli anni in cui lavora in diversi club contemporaneamente, correndo da uno all'altro per far quadrare i conti. Quando la Chess lo scritturò per pubblicare, tramite la sussidiaria Checker, quel primo Sock It To Me Boo Ga Loo, Rush si sentì come se fosse a un passo dal grande balzo che, in realtà, non sarebbe arrivato fino a quattro anni dopo con quel Chicken Heads che lo consacrò al riconoscimento nazionale. La storia di come fece passare questa canzone, così ribalda e sottile, insieme al double-entendre dell'altrettanto mascalzona e irriverente B-Side Mary Jane, è un esempio esilarante dell'attitudine a prendersi abilmente gioco della dabbenaggine altrui.
Intorno al 1983, quando il venerabile ambiente del chitlin circuit di cui era divenuto, nel frattempo, frequentatore e sovrano assoluto, si espanse verso sud nelle forme di in un nuovo fiorente circuito soul-blues, Rush si trasferì a Jackson, nel Mississippi. Abile showman, reintroduce l’uso delle ballerine nei suoi spettacoli che divengono legittimamente degli autentici shows. Delle piccole opere teatrali itineranti, dirette da un menestrello, raccontate attraverso recitazione e canzoni; una rivisitazione moderna del Vaudeville. Intuendo nuove opportunità, per sfruttarle Rush si rimodella restando comunque fedele ai suoi valori artistici e alla personalità coltivata nel corso degli anni. Partito da un pubblico decisamente afroamericano, all’espandersi del suo territorio d’azione, è corrisposta un’astuta modifica del suo spettacolo, finalizzata a includere un'audience più bianca senza, al contempo, perdere fan da ambo i lati del presunto divario razziale: come dice lui, “I’m the one who have crossed over, but never crossed out!”. Ma questa è solo parte della storia narrata qui evolutasi poi, con la vittoria, nel 2017, di quel primo Grammy Award - ne seguirà un secondo a breve giro! - conquistato con l’album della definitiva consacrazione: Porcupine Meat.
La ricchezza narrativa di Rush, la vividezza delle sue immagini, l'affetto profondo con cui ricorda membri della sua famiglia quanto colleghi, mentori, amanti e amici rappresentano il cuore e l'anima di questo libro e dell’uomo che lì vi si racconta. A tutto questo si aggiunga che, sebbene nessuna sezione del libro sia specificatamente dedicata a ciò, l’eloquio di Rush arriva a toccare razzismo, politica, cultura, spiritualità; argomenti che permeano il racconto snodandosi attraverso le pieghe dei ricordi, quali parti ancora inestricabili della vita contemporanea della gente di colore nell’America di oggi. Nella miglior espressione del suo storytelling, Rush interpreta il ruolo dell’uomo qualunque per illuminare, anche attraverso sagaci, esemplificative metafore, la voce viva del suo popolo. Ritorna alle radici, assumendosi il peso della propria storia, che diventa, così, storia collettiva e, con tutta l’ironia e l’autoironia di cui è capace - “In life, sometimes you’re the windshield and sometimes you’re the bug” - ricorda i valori senza età della famiglia e della fermezza spirituale per confessarci il segreto della forza che lo ha portato agli ottantacinque anni di vita, calcando ancora indomito le scene di mezzo mondo - “When you’re in your mid-eighties like me, you know you’re way past the first song of the show. You’re actually walking back to the stage for one more encore.”. E ancora: "I realize it’s a blessing to remember to remember".
Una bella lettura: alta e corroborante.

Giovanni Robino        


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